Ritorno alla terra
Un progetto e un’esperienza
di Marco Ciot
Dal 6 al 12 ottobre 2014 sono stato uno dei partecipanti della seconda edizione del progetto “Ritorno alla Terra” riproposto dalla Ong Cisv (Comunità Impegno Servizio Volontariato) di Torino, dopo il grande successo della prima edizione del 2013. Il progetto aveva come obiettivo principale quello di creare un reciproco rapporto di conoscenza fra realtà contadine e giovani di città interessati al mondo rurale.
Il riavvicinamento dei giovani alla terra è uno dei fenomeni simbolo del nostro presente. Da una parte, il mondo in continua evoluzione si trova a convivere con piccole realtà rurali bisognose di menti creative, le quali però sono impreparate a prendersi cura della natura. Dall’altra parte, le piccole realtà contadine desiderose di farsi conoscere nel mondo ma incapaci di comunicare nella nuova era dei media globali. Uno degli obiettivi di “Ritorno alla terra” è proprio quello di trovare un punto d’incontro fra questi due aspetti del nostro tempo. Le realtà contadine contattate sono strettamente legate al territorio piemontese e ai suoi prodotti, tutti rigorosamente a chilometro zero. Il breve tempo – una settimana – speso a contatto con queste realtà contadine è un’occasione per i giovani selezionati di capire quanto realmente vogliano avvicinarsi a questo mondo: può anche succedere che la fatica quotidiana si dimostri un tenace deterrente ad un effettivo ritorno alla terra.
La mia collega Francesca ed io ci siamo ritrovati, il 6 ottobre 2014 in un quartiere totalmente sconosciuto di Torino, a prendere un autobus in direzione Cumiana, toponimo che all’epoca non mi diceva assolutamente niente. Eravamo diretti alla Cascina dei Frutasé, piccola realtà a conduzione familiare immersa nelle colline, dove fin dal primo giorno siamo stati trattati come membri della famiglia.
Il periodo scelto per lo svolgimento del progetto non era il più felice dell’anno, perchè in ottobre l’attività contadina non è intensa come in primavera o in estate. Ma la fatica non mancava. Soprattutto per chi non era per niente abituato alle levatacce. Di mattina la sveglia suonava presto, verso le sei, e a colazione si doveva mangiare molto per essere pronti a bruciare le energie sul campo già dalle sette.
Sotto l’esperta guida di Bruno, il nostro papà-guru della settimana contadina, ci siamo avvicinati al mondo rurale da una prospettiva particolare, oserei dire filosofica. Bruno e la sua famiglia non avevano solo campi coltivati senza additivi o diserbanti. Nella loro proprietà, infatti, ci si poteva imbattere in quello che Bruno chiamava l’orto di pace. Una serie di file di terra coltivate secondo la tecnica della permacultura, un “sistema integrato ed evolutivo di specie vegetali ed animali perenne o auto-perpetrante, ed utile all’uomoi”. La permacultura è più volgarmente detta “orto dei pigri”, perchè non necessita delle stesse cure di un orto tradizionale (per approfondimenti, consultare il sito permacultura.it).
Inizialmente, il nostro principale lavoro consisteva nel togliere l’erba dai camminamenti, dividendola fra erba buona e meno buona. Quella buona, come il trifoglio, veniva rimessa fra gli ortaggi in modo che aiutasse a creare una specie di copertura dal freddo e, ricrescendo, permettesse una maggiore fissazione dell’azoto, molto utile per la crescita dei legumi. Quella meno buona veniva semplicemente estirpata. In un orto così molti ortaggi vengono mischiati, in quanto reciprocamente utili. Non si vedrà mai un orto a permacultura ordinato secondo i canoni ai quali siamo stati abituati.
Il nostro lavoro non si limitava a questo. Bruno e famiglia lavoravano anche altri campi, non a permacultura ma ordinari: uno sotto casa, altri due più grandi a una decina di minuti in macchina.
L’azienda agricola di Bruno naque dopo che Bruno e la moglie Milena avevano visto al cinema il film “Gandhi”. Bruno all’epoca lavorava nell’indotto Fiat: da sempre operaio dipendente, si rese di colpo conto che qualcosa non tornava, e inziò a creare qualcosa. Iniziò dal pane, l’alimento principale, intrinseco simbolo di vita, totalmente opposto alla realtà alienante della fabbrica. Dopo centinaia di tentativi e attraverso il passaparola, con la produzione di pane potè permettersi di abbandonare il lavoro in fabbrica. Era pronto per iniziare una nuova avventura a contatto con la terra.
Attraverso mille avventure, mille esperimenti, tante delusioni, soddisfazioni e un figlio, Bruno e Milena costruirono la realtà che mi si parò davanti nell’ottobre 2014.
Durante quei giorni mi resi conto di quanto fosse soddisfacente e allo stesso tempo incredibilmente difficile vivere della terra. Ogni giorno era duro alzarsi, soprattutto perchè lavorare al freddo non era piacevole. La sera, però, niente aveva il valore del cibo mangiato, guadagnato e sudato. Soprattutto, i discorsi e le storie condivise (Bruno ne ha tantissime da raccontare) facevano andare a dormire con il sorriso e quasi dimenticare il dolore diffuso su ogni centimetro del corpo.
Le giornate più impegnative sono state il martedì e il venerdì, giorni di consegna dei prodotti dell’orto. Prima c’era la raccolta, che cominciava presto e doveva finire prima dell’ora di pranzo, perchè bisognava preparare le borse per la consegna porta a porta. Non ricordo quante borse riempimmo, ma la macchina stava letteralmente per esplodere! Il prezzo e il peso di ogni borsa erano fissi, indipendentemente dalle varietà di ortaggi presenti, simili per ogni borsa. Subito dopo pranzo si partiva per le consegne che terminavano verso ora di cena dopo una serie infinita di curve, salite e discese nei dintorni: una volta finimmo in mezzo ad una mandria di vacche che ci sfioravano in maniera per me, non abituato a certi incontri, paurosa. E anche le consegne finirono.
Non poteva mancare il giorno del pane. Bruno aveva costruito un forno enorme per far fronte alla produzione settimanale di circa 80-90 pagnotte da un chilo ciascuna fatte con la pasta madre e farina locale e vendute in diversi mercati locali.
Un’esperieza unica, che consiglio a tutti i giovani, piemontesi e non. Lavorare qualche giorno a contatto con la terra è liberatorio e aiuta a concentrarsi sulla fatica, sui sapori, sulle parole e sulle sensazioni, aspetti che troppo spesso vengono dati per scontati e ignorati, ma che rappresentano alcuni dei mattoni di una civiltà da difendere per non perderla nel mare della società liquida.
Questo articolo ha ricevuto una menzione alla X edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Economia, Turismo, Ambiente
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