Un gruppo di detenute ha dato vita a FUMNE, un laboratorio artigiano in cui materiali di scarto diventano pezzi unici di moda e design
Michela Damasco
Sul sito del Ministero della Giustizia, alla voce “Strumenti – Vetrina dei prodotti dal carcere”, da quasi due mesi ci sono anche loro. “Le ragazze” come le chiama col sorriso Monica Gallo e come sono conosciute all’esterno, senza distinzione di età o di condizione. Sono un gruppo di detenute, protagoniste di uno degli ultimi progetti nati all’interno della Casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino: un laboratorio creativo e artigianale che trasforma stoffe, abiti, accessori, ideato a gestito dall’associazione Lacasadipinocchio.
L’idea è nata nel novembre 2008, grazie appunto a Monica Gallo, che ha proposto la nascita di un laboratorio dietro le sbarre, con l’intento di sostenere il lavoro femminile in una situazione di privazione della libertà, privilegiandone l’aspetto creativo e manuale. L’obiettivo è ridare alle donne in stato di reclusione la possibilità di mantenere e sviluppare la propria femminilità, in una condizione difficile come la pena carceraria. Il laboratorio utilizza sempre materiali vergini considerati di scarto, restituendo nuova vita e funzioni a tessuti, metalli, plastica e legno, diventando di fatto una bottega di lavoro che fa borse, scialli, accessori, elementi di arredo e di design. Il tutto rielaborato con creatività.
Dai primi incontri con sei detenute incolumi, a cui è vietato il contatto con le altre per la gravità del loro reato, i risultati sono stati sorprendenti: “Buona parte di loro, racconta Monica Gallo, ora coadiuvata da Sara Battaglino, sapeva lavorare a maglia e all’uncinetto e aveva idee. Ben presto sono arrivate così tante richieste di partecipare al laboratorio messo su all’interno del carcere che, col tempo, si sono unite le detenute comuni. Al momento, sono in tutto 15, tra i 23 e i 55 anni, lavorano in autonomia tutti i giorni, dalle 9 alle 11,30 e dalle 13 alle 16. Alcune, una volta uscite, continuano a collaborare”.
Un finanziamento della Compagnia di San Paolo ha poi permesso di fornire il laboratorio interno di macchine da cucire, materiale e un fisso mensile per ognuna: “La base è di 100 euro, a cui si aggiunge una percentuale, fissata dal direttivo del carcere, sulle vendite dei prodotti”. Perché gli accessori femminili realizzati sono riconoscibili in un vero e proprio marchio: Fumne, che in dialetto piemontese significa donne. “Abbiamo scelto un nome che esula un po’ dal riferimento alle sbarre” spiega, sempre sorridendo, Monica Gallo, mentre rifinisce una borsa di pelle e lana, aggiungendo che “il laboratorio ha rivitalizzato queste donne, che vivono le cose attraverso l’uso delle mani. Ognuna le vive a modo proprio, con uno stile ben definito”.
Ogni tipo di materiale è considerato, esaminato, maneggiato e lavorato come se fosse il più raro e prezioso. In questo modo, un banale pezzo di stoffa da divano, un vecchio cuscino, una cerniera acquistano una nuova dignità. Spesso sono proprio i materiali a disposizione, recuperati dai più diversi fornitori, magari salvandoli dalla fine in una discarica o dal fondo dell’armadio dove erano stati relegati e quindi dimenticati, a suggerire l’idea. Ed è questo il motivo per cui non ci sono due prodotti identici: la disponibilità del materiale e la creatività delle “ragazze” non può che determinare una produzione limitata di ogni modello di manufatto.
Il progetto, più di due anni fa, era stato lanciato da una mostra-mercato presso lo spazio Eventa, a Torino, dove ancora adesso vengono organizzati shop temporanei. Da allora, molte stoffe e materiali sono passati dal carcere: in breve, il marchio Fumnesi è creato un suo spazio ed è stato apprezzato all’esterno. Basti pensare, soprattutto grazie al passaparola e uno strumento di comunicazione come Facebook, al successo del Natale Ecologico e Solidale: il laboratorio, proponendosi di contribuire alla trasformazione degli accessori femminili che le donne, torinesi e non, avevano nei loro armadi e non usavano più (giacche di pelle e renna, borse, collane, cappotti, maglie, abiti, cappellini…), ha invitato a consegnare o spedire il capo nella sede di Eventa, per poterlo poi ritirare completamente trasformato, in cambio di un’offerta economica o di filati o tessuti.
Non a caso, la seconda fase del progetto punta alla progettazione di una rete di vendita che possa garantire il proseguimento dell’attività. Sono già aperti due corner shop a Torino, e i prodotti delle ragazze in carcere piacciono: “Da Bertolini, racconta Monica Gallo, un certo tipo di borse con bottoni colorati sono piaciute così tanto che ci hanno chiesto di produrne ancora, ma il lavoro del laboratorio non è fatto per le produzioni in serie”.
Numerosi i progetti in corso: solo per citarne alcuni, l’inserimento della vendita di prodotti studiati su misura per i bookshop di Palazzo Madama e GAM di Torino, oltre al Museo del Novecento di Milano; una convenzione con l’Atc per il recupero di arredi da restaurare artisticamente e l’eventuale vendita all’asta; la collaborazione con l’Istituto Europeo di Design (Ied) per una linea di gioielli.
Com’è possibile ottenere tutto questo? Molto semplice: “Mando mail, cerco contatti. Le nostre idee e il nostro lavoro piacciono”.Tutto fa, per la sopravvivenza del laboratorio, e anche per garantire un’entrata alle detenute che lavorano alacremente dal mattino alla sera.
Soprattutto, considerando che Lacasadipinocchio segue una filosofia ben precisa, “vogliamo mantenere uno stile artigianale”. Nessuna intenzione di fondare una cooperativa, come ce ne sono tante, che lavorano con le carceri, assumendo detenuti: “È una soluzione che non si addice al nostro modo di pensare, perché noi curiamo anime. Il nostro, poi, è un rapporto basato su stimoli creativi, che sono molti se si mettono dieci donne dietro un tavolo a ideare sulla base del materiale che hanno. L’idea di assumerne qualcuna e farne lavorare meno si allontana dal nostro modo di porci”.
Una sfida impegnativa e faticosa, certo, ma che sta dando i suoi frutti, anche grazie a una direzione carceraria “illuminata” come quella torinese e al supporto di tutti coloro che finora hanno collaborato. E da gennaio, prima in Italia, l’associazione ha aperto, all’interno del carcere, una scuola artigianale gestita dalle detenute-insegnanti e aperta all’esterno dove fare, praticare, apprendere uno spazio di rigenerazione tessile e artistica, intorno ai tavoli dedicati all’attività manuale.
Ogni sabato donne libere a gruppi di dieci possono partecipare ai corsi in programma, come creazione di bijoux e borse, lavorazione del feltro, tintura naturale dei tessuti, maglia, uncinetto, telaio e molti altri. Carcere come luogo aperto all’interazione tra donne libere e recluse, a una creatività che non conosce sbarre. Il problema della detenzione può essere l’annullamento della personalità, rendendo il reinserimento più problematico, ma di certo non riguarda le “ragazze-Fumne” creative, che hanno dimostrato fin dall’inizio devozione ed entusiasmo. Attraverso il laboratorio aperto, dopo i numerosi apprezzamenti ricevuti per il loro lavoro, hanno un’ulteriore occasione in più per essere riconosciute dalla società civile. Anzi, di più: per insegnarle qualcosa, sul filo della creatività.
Info: www.lacasadipinocchio.net