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Laura Halilovich – Intervista di Nico Ivaldi

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La favola di una giovanissima artista: dai campi nomadi alla macchina da presa a… Manhattan?

Intervista di Nico Ivaldi


Dai campi nomadi a Manhattan. 
Non è il titolo di un nuovo film, ma è la strada che porta al sogno. Quello di Laura Halilovic, ventun anni, famiglia bosniaca di etnia rom, regista del pluripremiato documentario Io, la mia famiglia Rom e Woody Allen, prodotto da Zenit Arti Audiovisive in collaborazione con Rai Tre.
Fino a 8 anni Laura è vissuta in Strada dell’Aeroporto. Poi si è trasferita con la sua famiglia in un alloggio popolare alla Falchera, dove tuttora vive come una qualsiasi gagé, termine con cui i rom definiscono chi rom non è. Il padre fa il rottamaio, la madre la casalinga. Laura studia fino alla terza media, poi frequenta un corso per diventare cuoca e poter così lavorare. Ma un giorno vede alla tivù il film più celebre di Woody Allen,Manhattan, e ne resta folgorata.
Decisi che avrei fatto la regista, e da allora non ho più cambiato idea” ci racconta nella sua casa torinese, dove vive con i suoi parenti, dieci persone in tutto.
A diciotto anni firma il suo primo cortometraggio, Illusione, con il quale vince il Festival Sottodiciotto. Nel frattempo conosce due registi e sceneggiatori torinesi, Davide Tosco e Nicola Rondolino, che la incoraggiano e le fanno da tutor. Ma Laura ha un talento naturale e soprattutto ha voglia di raccontare una storia.
Così nasce nel 2009 Io, la mia famiglia Rom e Woody Allen, un piccolo gioiello di semplicità, la ricerca della propria identità da parte di un’adolescente che fruga nella storia della propria famiglia, nel suo viaggio dalla Bosnia all’Italia e nel passaggio dal nomadismo allo stanziamento. Un documentario da cui emerge forte la matriarcalità della famiglia Halilovic, con le forti personalità della mamma e della nonna.
ivaldi-2Fil rouge del documentario è la lettera, rimasta senza risposta, che Laura scrive al famoso regista americano.
Nei cinquanta minuti del documentario – che ha fatto incetta di premi e riconoscimenti in Italia ma soprattutto all’estero – realizzato anche con i filmati delle feste gitane girati da suo padre, Laura Halilovic dà voce, non senza una buona dose di umorismo, ai contrasti ed alle incomprensioni che fin da piccola la accompagnano nelle relazioni con i suoi genitori e con i gagé. Ci parla dei problemi dell’integrazione a scuola, della paura e dell’ansia per i numerosi sgombri che i rom debbono subire senza poter far valere le proprie ragioni. Al proposito è significativa la battuta della nonna di Laura che dice: “Metti su l’acqua per la pasta in questo campo per l’ora del pranzo, la pasta si cuoce mentre ci sgomberano, per poi mangiarla chissà in quale altro posto”.
E proprio l’ironia è l’arma migliore della Halilovic, anche se ancora troppo frenata da quella retorica che accompagna spesso i giudizi, da ambo le parti, sulle odierne vicende dei nomadi.
Laura, quali sono le vostre colpe, se pensate di averne, nel non volervi integrare?
Noi ci stiamo integrando, io sto cercando di cambiare, ho lasciato le mie tradizioni e la mia cultura per adeguarmi ad un Paese in cui sono ospite, anche se sono italiana, ma non vengo ancora accettata completamente. Però questo mi dà la forza per essere ancora più orgogliosa di ciò che sono e per portare avanti le mie idee”.
Come vedi l’integrazione tra rom e italiani?
«Spero che dalla parte italiana venga compreso che anche noi siamo persone e non animali, mentre dalla parte rom che devono anche loro adeguarsi. Ma molti che cercano di adeguarsi si chiedono il perché debbono farlo se comunque non vengono mai accettati per come sono e restano  sempre esclusi. Quando i leghisti mi dicono “Vai a casa tua” io rispondo che sono italiana ma provengo da una cultura che non ha una sua patria ed è libera. Casa mia è il mondo. Ma loro non riescono a capirlo!».
I tuoi come l’hanno presa l’idea che tu diventassi una regista di film?
All’inizio non tanto bene. Perché una ragazza rom non può né studiare né tantomeno lavorare: insomma, io disonoro la famiglia, così dicono”.
Qual è il tuo rapporto con gli altri della tua comunità?
Purtroppo, facendo questo tipo di lavoro, ed essendo anche una donna, non vengo vista tanto bene dalla mia comunità, e questo mi dispiace molto. Inoltre, non con tutti i rom riusciamo a capirci. Però ho incontrato parecchie persone che avevano veramente bisogno di avere una voce e farsi sentire, e sono stata molto felice di portare il mio lavoro in giro, conoscerli e aver avuto un confronto con loro”.
Ritorniamo alla tua vita nel campo, Laura. Che ricordo hai di quel periodo?
Un ricordo bellissimo. Vivevo con la mia famiglia, una vita in piena libertà, senza regole. Ma il brutto era quando, da fuori, venivo vista come una persona diversa dagli altri”.
Ti riferisci alla scuola?
Sì, lì ho vissuto sulla mia pelle molti pregiudizi, ma non per colpa dei miei compagni, ai quali veniva fatto dai genitori il lavaggio del cervello. Il primo giorno di scuola tutti mi guardavano male perché vestivo con una lunga gonna a fiori da zingara. Poi con gli anni ho fatto amicizia con molti ragazzi e ora sto bene. Il problema è che noi siamo un popolo ancora poco conosciuto. Siamo ai margini e spesso ci mettiamio ai margini della società con il nostro comportamento. Ma anche da noi, come fra di voi, ci sono persone buone e altre cattive. Ritengo profondamente sbagliato generalizzare”.
Che tu sappia, le condizioni di vita del campo nomadi da cui tu provieni sono migliorate o peggiorate?
Peggiorate. Come struttura vivono malissimo, le condizioni igieniche sono spaventose. Si vive in mezzo ai topi e alle malattie. Ma la cosa non interessa a nessuno!”
E ora come vivi alla Falchera?
Ci vivo benissimo, adoro questo quartiere perché è pieno di gente che ti accetta per quello che sei e non ti giudica per la tua cultura. Vivo qui ormai da 13 anni, anche i miei stanno bene, la gente è cordiale, non abbiamo mai subito episodi di razzismo. Se mi dovessero dire di andare via da qui, non accetterei!”
Magari faresti uno sforzo per andare a Manhattan…
Oh sì, per Manhattan sì, andrei di corsa!”
Perché ti sei fermata alle medie e non hai proseguito gli studi?
Perché nella nostra tradizione la figlia femmina deve sposarsi e metter su famiglia, come succedeva una volta da voi, nel Meridione. Alla mia età dovrei già avere un marito e dei figli”.
E tu, invece?
Ho un fidanzato, ma per sposarmi non c’è fretta”.
Almeno hai imparato a cucinare col tuo corso?
Credo di sì, per questo motivo se non altro potrei essere una buona moglie“ (ride).
Di cosa parla il tuo primo corto, Illusione?
È la storia d’amore di un gruppo di adolescenti. È una storia breve, ma che mi ha lanciato. L‘ho girata in via Stradella, tutta in una giornata. Il montaggio è durato tre mesi, e durante quel periodo è nato anche il documentario”.
Avevi già una tua videocamera?
No, quella l’ho vinta a Sottodiciotto Film Festival.”
Com’è nato il rapporto con Tosco e Rondolino?
Prima di fare Illusione, loro erano venuti alla Falchera per girare un documentario. Io mi sono offerta di fargli da guida nel mio quartiere e in cambio loro mi hanno dato una mano col mio corto. Così è nata una bella amicizia che continua tuttora e così sarà anche nel mio prossimo lavoro…”
E cioè?
S’intitolerà Profumo di pesche e racconterà la storia di tre ragazze diciassettenni di periferia, una rom, una meridionale ed una magrebina, che frequentano la scuola alberghiera ed hanno tanti sogni nel cassetto”.
Perché Woody Allen?
Perché è un grande. È stata la mia scuola. Di lui mi piace il divertimento, l’ironia. Quando Woody non lavora come attore, non guardo i suoi film. Tutti i suoi film sono dei capolavori, meno Zelig, che non riesco a farmi piacere”.
Che cosa ti piace del regista americano?
La voce buffa, gli occhiali enormi, il modo di parlare e recitare e un po’ tutto quello che lo circonda”.
Speri d’incontrarlo, una volta o l’altra?
Certo… Magari sarà proprio lui a consegnarmi il premio per un mio film …”

 

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