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Un Geppetto fra le colline acquesi – di Ilaria Leccardi

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Natale Panaro e i suoi burattini

di Ilaria Leccardi

Pulcinella ha le mani di legno e il sorriso da furbetto. Il Grillo parlante è alto una spanna, color verde smeraldo, gli occhi rotondi. L’Avvocato del Foro ha i riccioli di carta, mentre Cappuccetto Rosso, quando si volta, si trasforma in Lupo. Tutti riposano in una stanza e tornano in vita se qualcuno li prende per mano. Sulle colline di Castelletto d’Erro, paesino dell’acquese in provincia di Alessandria, vive il loro padre, spirituale e materiale. Natale Panaro ha i capelli grigi e i baffi da Geppetto. Le sue mani sono capaci di meraviglie. Le meraviglie a cui in decenni di attività ha dato vita, con l’inventiva e il laborioso lavoro di creazione.
Artigiano, burattinaio (“figurinaio” lo definì il suo amico, regista e autore televisivo Tinin Mantegazza), Natale Panaro è prima di tutto un artista. Un uomo di 70 anni che ha dato al teatro, alla televisione, alla cultura italiana, un patrimonio enorme di personaggi, maschere e manufatti di ogni materiale. Ha permesso ad attori di assumere nuove sembianze e a teatri di trasformarsi in luoghi lontani, così come al legno di prendere vita nei burattini e a migliaia di bambini di entrare in un mondo magico.
panaro-1 Non c’è un momento in cui tutto è iniziato. È come se l’arte Natale Panaro se la fosse trovata nelle mani. “Ho cominciato intagliando crocifissi, il primo a sei anni e mezzo…”, racconta di fianco al camino di casa, mentre piccoli fiocchi bianchi si posano sulle colline attorno al suo rifugio isolato. “Sono nato poco lontano da qui. La mia era una famiglia povera, ma in cui si parlava italiano, i miei genitori volevano che studiassi”.
A dieci anni Panaro si trasferisce a Finale Ligure e poi a Savona, per frequentare il Liceo classico in un collegio di Scolopi. All’epoca la sua arte non ha  un nome, è più una passione alimentata da autodidatta. La svolta avviene nella grande città. “Ho vinto un posto in collegio a Milano e mi sono iscritto a Lettere Moderne alla Cattolica. Anche se non ho frequentato l’Accademia, il mio interesse per l’arte è sempre stato grandissimo”.
Uscito dall’Università, Panaro inizia a insegnare a scuola. Ma nella viva Milano le sue capacità non passano inosservate. Presto arrivano le proposte nel mondo dello spettacolo. “L’amicizia con Luisa Spinatelli, poi divenuta celebre scenografa e costumista, mi ha permesso di entrare nell’ambiente del teatro milanese. Un giorno seppi che c’era del lavoro da fare per Rancati, la più celebre attrezzeria per teatro e cinema d’Italia… e così ho cominciato”.
Oggetti di scenografia, arredi, impianti di grandi dimensioni, costruiti anche con la creta, con cui il giovane Panaro fin ad allora non si era mai confrontato. Ma si trattava di creare delle insegne per l’Aida di Verdi e la necessità si trasformò in occasione di ingegno. “Ho realizzato scenografie di ogni tipo, arredi enormi, come un braciere di due metri di diametro per la Turandot. E a Milano ho anche lavorato per la celebre Sartoria Brancato”.
Arrivano poi i contatti con il Piccolo Teatro e Giorgio Strehler. “Per lui ho realizzato tutte le maschere in creta per il Faust e un giorno mi commissionò una maschera in cuoio da forgiare sul volto di Massimo Ranieri. Un impegno lungo di cui ancora oggi conservo calchi e risultato finale”. Fino all’approdo in televisione. “All’inizio degli anni Novanta fui chiamato da Tinin Mantegazza per lavorare nello staff dell’Albero Azzurro, la trasmissione Rai per bambini che aveva come protagonista l’uccellino Dodò. Diventai “Consulente a manualità e microscenografie”. Per otto anni ho dato vita ha quasi tutte le figure andate in scena. A casa conservo alcuni esempi di quelle creazioni, come il Grillo parlante e la maschera metà Cappuccetto Rosso e metà Lupo cattivo…”.
Mentre racconta, Panaro rigira tra le mani la sua ultima meraviglia: la minuscola testa di una donna intagliata in legno. L’espressione serena, i capelli raccolti a crocchia e le sfumature dell’acconciatura distinguibili in ogni dettaglio. “È un regalo per Renate, mia moglie”, sorride. È lei la donna che lo segue in ogni passo, prima a Milano e oggi qui, nelle valli di Castelletto d’Erro. “È bavarese, ci siamo conosciuti diversi anni fa durante un laboratorio. Una delle mie tante esperienze di insegnamento”. Ecco l’altra anima dell’artista, quella del maestro. Nel suo repertorio Panaro ha decine di corsi che realizza in giro per l’Italia: momenti di confronto con allievi a cui dà la possibilità di misurarsi con la materialità, l’inventiva, la bellezza della creazione. 
Natale non ama i riflettori, si definisce “un solitario”. Un artista-operaio che lavora nell’ombra. “Un rammarico? Forse quello di non essermi saputo promuovere… Non ho mai avuto la mentalità degli ambienti alti della cultura. Nel 2000, dopo quarant’anni a Milano, sono tornato nel mio paesino e oggi, pur continuando a tenere corsi in tutta Italia, amo vivere qui. E poi… il dispiacere di veder fuggire via gran parte delle mie opere. Ho sempre lavorato su commissione e quindi le maschere e le creazioni che conservo nel mio laboratorio sono per lo più copie degli originali. Una minima parte della mia produzione”.
Uno dei pezzi più preziosi di Natale Panaro è però rimasto a casa. Lui ci passa di fianco, l’abbraccia. Quasi ci parla. “È il mio Pulcinella…”. Un burattino con la testa a forma di uovo, in legno di cirmolo, leggermente inclinato indietro. Una matrice originale che Panaro ha utilizzato anche per realizzare altre due figure, la Morte e il Diavolo. L’espressione del “suo Pulcinella” è leggermente beffarda, sembra pronto a prenderti in giro. Ma questo personaggio è diventato una costante nella produzione dell’artista piemontese, un filo conduttore di tante sfide. Soprattutto grazie alla collaborazione con Paolo Comentale e la Casa di Pulcinella di Bari. “Il museo contiene oltre duecento mie creazioni, compresa una serie di Pulcinella realizzati su disegni di Emanuele Luzzati”.
Quello con i burattini è in realtà un contatto arrivato per Panaro piuttosto tardi. “È come se fossero stati loro a cercarmi. Li ho incontrati per esigenza, quando un burattinaio torinese mi chiese di realizzare due maschere e tre personaggi in legno… Avevo 35 anni. Poi ho iniziato a collaborare con il Teatro del Buratto di Milano, per cui per dodici anni ho creato pupazzi e figure in gomma piuma…”.
Legno, creta, cuoio, polistirolo, palline da tennis, mollette per stendere, stuzzicadenti, cartoncino… Il segreto dell’arte del Geppetto piemontese è la capacità di lavorare tutto. “Non amo molto i materiali chimici, come il lattice. Anche se per esigenza lo utilizzo, come è stato per le maschere di uno spettacolo di John Turturro che si è tenuto nel 2009 a Torino. Per il resto non ho remore… La mia più grande dote credo sia la capacità di vedere tridimensionalità ovunque, anche in un pezzo di cartone. Non butto via nemmeno le scatole delle medicine. Me ne basta una per fare un burattino. Ogni creazione mi appassiona, perché la vedo prendere vita sotto le mie mani. E tutto deve avere una finalità, un utilizzo. Come le maschere”.
Panaro ne ha realizzate di ogni tipo, dalle più complesse e coreografiche, come la serie ispirata ai Capricci di Goya, fino a quelle apparentemente più semplici, di cartone, ma che hanno nel dettaglio una corrispondenza perfetta con la realtà, anche quando si tratta di figure stilizzate. “Se ad esempio in una trasmissione per bambini vogliamo creare la maschera di un gatto, si deve capire al primo sguardo di che animale si tratta. Non ci possono essere dubbi… Ma soprattutto la maschera dev’essere indossabile. Non credo che sia possibile realizzare maschere che non abbiano un scopo. È il teatro che mi insegnato questo”.
Sul palcoscenico Panaro fisicamente non ci è mai salito, ma è come se la sua anima fosse stata sempre lì, per mano agli artisti, nella polvere dell’aria, tra riflettori e costumi di scena. A interpretare e vivere l’arte della rappresentazione.

Questo articolo ha vinto la IV edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura e Ambiente

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