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Esili forzati e arrivi strategici – di Bianca Mazzinghi

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La ‘ndrangheta in Piemonte

di Bianca Mazzinghi


Sono arrivati in Piemonte in soggiorno obbligato; hanno costruito qui imprese e fatto affari con una libertà d’azione che non avrebbero avuto nelle terre d’origine. I primi boss della ‘Ndrangheta trasferiti al Nord negli anni ‘60 hanno avuto campo libero. Presto sono stati raggiunti da altri affiliati, fratelli, cugini, perché è così che funziona nella ‘Ndrangheta. Il sangue conta e grazie ai legami di sangue l’organizzazione si protegge.

ndrangheta-1Imprese edili e cantieri sono state le attività dei primi boss, poi traffico di stupefacenti, sequestri di persona, gioco d’azzardo. Oggi la cocaina e il riciclaggio di denaro sporco sono le prime fonti di guadagno. Il riciclaggio piace in particolare perchè, anche se scoperto, non crea il clamore e l’allarme sociale generato dai reati di strada. La ‘Ndrangheta non si deve vedere; alla ‘Ndrangheta, al nord, non si deve pensare.
I primi boss della ‘Ndrangheta che arrivano in Piemonte sono quelli mandati al confino. Invece di rimanere isolati, trovano qui un tessuto economico favorevole ai loro affari. In particolare, lo sviluppo turistico della Val Susa degli anni Settanta inizia ad attirare investimenti, leciti e non. Fino agli anni Ottanta la mafia calabrese lavora in simbiosi con quella catanese, ma poi sono le famiglie della ‘Ndrangheta a prendere il controllo dell’area. Tra il ’73 e l’84 ci furono 37 sequestri di persona in Piemonte, la maggior parte dei quali nel torinese. Solo un paio di questi sono con certezza attribuibili ai siciliani.
I Belfiore di Gioiosa Jonica si affermano negli anni Ottanta come la famiglia dominante a Torino, dopo una serie di lotte e omicidi per la conquista del territorio. Bardonecchia diventa invece il feudo di Rocco Lo Presti e Francesco “Ciccio” Mazzaferro, entrambi condannati per mafia solo negli anni Novanta, quando si avrà un quadro più preciso sulla presenza della mafia in Piemonte.
Il 5 marzo 1994, in un capannone di Borgaro Torinese, i carabinieri trovano cinque tonnellate e mezzo di cocaina pura, ai tempi un sequestro record in Europa. È l’inizio dell’Operazione Cartagine, che metterà in luce un grande traffico di droga tra Colombia e Italia. Il processo che ne segue si conclude in appello nel luglio del 2000, con quattro ergastoli, una cinquantina di condanne e sequestri di beni per un valore di tre miliardi, tra cui case, anche abusive, terreni e quote societarie che facevano capo agli imputati.
Dall’operazione, e da altre che ne seguiranno, emerge che, come dice il coordinatore della Dda di torino Sandro Ausiello, tutte le famiglie calabresi hanno avuto e hanno relazioni nel distretto. Sul presente, non si lascia scappare altro: altre indagini sono in corso. Parte di queste hanno avuto una svolta dopo la testimonianza di Rocco Varacalli, primo pentito del Nord.
In un’intervista rilasciata a La Stampa, Varacalli spiega che ogni zona di Torino è coperta da un locale. Il locale è un nucleo di cui fanno parte minimo 49 affiliati e formato da più ’ndrine, la struttura base della ‘Ndrangheta, basata sui vincoli di sangue. Nel 2008 la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla criminalità organizzata ha indicato come principali cosche operanti in Piemonte i Pesce-Bellocco, gli Ursino-Macrì e i Mazzaferro di Gioiosa Ionica, i Morabito-Bruzzaniti-Palamara di Africo e i Màrando-Agresta-Trìmboli, presenti nella zona di Volpiano ma colpiti duramente nell’ultimo anno da arresti e confische. Tutte cosche importanti della provincia di Reggio Calabria, alle quali si sono affiancate le vibonesi dei Mancuso, dei De Fina e degli Arona di Sant’Onofrio.
 Tanti i nomi, enormi gli interessi. L’incastrarsi dei due fattori rompe il periodo pacifico della fine degli anni Novanta. Una nuova ondata di omicidi ha fatto pensare a tentativi di riorganizzazione in atto. Molte famiglie che avevano dettato legge nella Torino degli anni Ottanta e Novanta sono state indebolite dagli arresti. Il vecchio “Zio Mario” Ursino, figura fondamentale della ‘Ndrangheta del capoluogo piemontese, è sceso in Calabria. Dopo aver spadroneggiato su racket e appalti per 40 anni, è tornato nella sua Gioiosa Jonica. Lo ha fatto nel 2006, appena l’indulto gli ha permesso di uscire di prigione, dove era finito ai tempi dell’Operazione Cartagine. Domenico e Salvatore Belfiore sono in carcere, all’ergastolo. Libero è ormai solo Giuseppe, il fratello più giovane ma anche meno carismatico. L’inchiesta “Gioco duro” sul giro delle bische clandestine ha rivelato il sodalizio Belfiore-Crea per il controllo del gioco d’azzardo. Adolfo e Aldo Cosimo Crea sono due fratelli arrivati in Piemonte nel 2001 per fuggire a una guerra di mafia. Presto riescono ad affermarsi e a stringere legami sia con Beppe Belfiore, sia con Luciano Ursino, nipote ed erede designato di Rocco Lo Presti, con cui condividono le soffiate di un ispettore di polizia che li informa sulle indagini e doterà inoltre i Crea di uno scanner per trovare le cimici negli uffici. Il procedimento nato dall’operazione si conclude in appello con condanne per associazione semplice ed estorsione; niente aggravante di associazione mafiosa e quindi pene più lievi: dai due anni e quattro mesi di Belfiore ai sette anni e otto mesi di Cosimo Crea. “Abbiamo Torino in mano noi! Chi ha Torino in mano è uno della mia età, mio compare” dirà alla fidanzata al telefono uno della banda dei Crea, secondo quanto riportato dalla stampa locale. E il compare è proprio Adolfo Crea.
Dei due fratelli si parla anche nell’operazione del 13 luglio scorso, che ha portato all’arresto di 304 ‘ndranghetisti in tutta Italia. Dalle intercettazioni emerge un alto grado di organizzazione della ’Ndrangheta anche al Nord, e le registrazioni mostrano periodiche riunioni dei principali boss che discutono su come spartirsi i territori. In Piemonte, in particolare, mancherebbe una camera di controllo, ovvero un coordinamento dei capi locali, presente invece in Liguria e in Lombardia. E i boss del Torinese se ne lamentano. Il territorio è ormai nelle mani di nove locali, con Peppe Catalano a capo di quello di Torino. È lui che dovrebbe gestire l’intera regione, ma il suo ruolo viene messo in discussione a causa dei problemi relativi all’assegnazione del territorio di Rivoli. Bisogna decidere a chi affidarne il controllo, dal momento che non si può più contare su chi lo ha fatto fino ad ora, i fratelli Crea appunto, finiti in carcere. Lui vorrebbe darlo a Salvatore De Masi, capo del locale di San Mauro, ma Giuseppe Commisso, detto “’U Mastro” e suo referente in Calabria, è contrario. ‘U Mastro fa capire a Catalano che se procede di testa sua potrebbe andare incontro a spiacevoli inconvenienti. Ci pensano le Procure antimafia di Milano e Reggio Calabria a sistemare la questione arrestando tutti i protagonisti di questa storia, esclusi i Crea che invece tornano liberi.
Con questa operazione e gli arresti dei Marando e dei loro uomini e di parte degli Ursino è ormai chiaro che siamo nel pieno della riorganizzazione della ‘Ndrangheta in Piemonte. Le vecchie famiglie potrebbero essere sostituite da nuovi personaggi. La leadership di Belfiore è sotto attacco: “Belfiore non si occupa di niente, è sempre al night, non fa che sniffare cocaina” racconta in carcere Cosimo Crea. Ma lo racconta alla persona sbagliata, Paolo Alberto Micci, un catanese che adesso collabora con la giustizia e ha fornito importanti testimonianze sui nuovi movimenti criminali.
È certo che gli uomini delle ‘ndrine salgono a Nord in cerca di affari, d’investimenti. Come confermato dalla Dia, le principali attività d’interesse della mafia in Piemonte sono gli appalti pubblici, da aggiudicarsi attraverso imprese controllate, e il traffico di stupefacenti. Entrambe sono attività dagli alti profitti e rischi bassi, grazie alla rete di prestanome che protegge il mafioso nel primo caso, e spacciatori a più livelli nel secondo. È questo il motivo che spinge i sindaci del Nord a dichiarare che la mafia nel loro territorio non esiste. È questo il motivo per cui a Nord la ‘Ndrangheta non si vede.

Questo articolo ha ricevuto una menzione alla quarta edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura e Ambiente

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