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Terra di tram – di Simone Schiavi

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Un’altra  industria che il Piemonte non ha più

di Simone Schiavi


tram-1 Sferraglia nella nebbia”, si sarebbe detto un tempo; sennonché adesso, a Torino, perfino la nebbia pare scomparsa insieme a tante fabbriche. Non è arancione, non è grigio metallizzato, non è nemmeno verde ma è bianco e rosso, o per meglio dire: rosso e crema. È un tram, per la precisione. Si chiama 116, è nato nel 1911 per festeggiare il primo cinquantenario dell’Unità d’Italia e compie dunque un secolo di vita. Oggi il 116 è la più antica testimonianza esistente di un’industria, quella delle costruzioni tranviarie, un tempo fiorentissima in Piemonte.
Salire sul predellino, sentire l’odore della meccanica, la sensazione tattile dei tessuti e dei vetri satinati, tra oggetti e componenti che tradiscono la mano dell’uomo, propri di un periodo in cui erano l’occhio e le dita, e non un braccio meccanico o un computer, a trasformare un disegno in un oggetto. Se si smontano una lamiera o un sedile si può ancora trovare, nascosta alla vista, qualche scritta vergata a mano, in un corsivo ingenuo, con istruzioni per l’assemblaggio come “sinistra” o “alto”; è anche da piccoli segni come questi che si ritorna a un mondo in cui le aziende sapevano fondere le eccellenze della bòita con i ritmi produttivi da vera rivoluzione industriale. Un lavoro duro quanto oggi nemmeno si può immaginare ma destinato a costruire veicoli fatti per durare nel tempo.
Ancora all’inizio del secolo scorso il truck dei tram, ovverosia tutto ciò che sta sotto la carrozzeria, viene fabbricato all’estero; il telaio, insomma, con gli assi e i motori sospesi “per il naso”, secondo un curioso gergo tecnico. È però da quel momento che l’industria piemontese si impone, invadendo pacificamente tutta l’Italia e perfino un’Europa fatta di nazioni non sempre pacifiche. Produrre tram è una scommessa vincente, perché una rete tranviaria è, per le città dell’epoca, una necessità e perfino un vanto, tanto che le moderne motrici diventano spesso il soggetto di cartoline oggi ricercatissime.
Già a quel tempo Torino vuol dire auto e trasporti in generale. La genesi delle prime industrie per la costruzione di tram presenta infatti percorsi di sviluppo sorprendentemente vari; tratti comuni, però, sono le dimensioni medio-grandi delle aziende e la raffinatezza dei prodotti.
Dall’intraprendenza di un carradore nasce la Diatto, costruttrice del nostro 116 ma anche di auto e di altri mezzi di trasporto; curiosità tra le curiosità, il primo stabilimento dell’azienda si trova lungo il Po presso la chiesa della Gran Madre, in una zona che oggi fatichiamo a pensare industriale.
Pochi decenni dopo, a Savigliano e Torino troviamo la Snos (Società Nazionale Officine di Savigliano), fabbrica di tram diffusi in tutta Italia, da Trieste a Cagliari, comprese le vetture snodate torinesi dette popolarmente “due camere e cucina” negli anni del boom economico; senza dimenticare gli altri settori, con la colossale copertura in ferro della Stazione Centrale di Milano, biplani da caccia per la Grande Guerra e perfino l’ossatura del grattacielo di piazza Castello, a Torino.
A Condove, in quella Valsusa all’ombra della Sacra di San Michele, a farla da padrona è la Società Anonima Bauchiero, poi Officine Moncenisio, creatrice tra inizio secolo e gli anni Settanta di tante motrici tranviarie. Tra i suoi veicoli ancora in servizio, immarcescibili, vi sono i tram articolati torinesi che percorrono il centro cittadino vestiti di arancione, oltre alle vetture che per decenni hanno accompagnato i cagliaritani lungo le strade della loro città.
Come sempre, però, parlare di trasporti e meccanica a Torino e in Piemonte vuol dire parlare di Fiat. Non sono tempi di newco o di cosiddetti “spezzatini” ma di slogan come “Cielo, terra, mare”, che significa sapersi muovere in ogni settore con maestria ingegneristica. Nata dalla già citata Diatto, la Fiat Materiale Ferroviario giunge ad occupare migliaia di lavoratori nei propri stabilimenti, nel torinese corso Rosselli e poi nei siti produttivi già Snos di corso Mortara e di Savigliano. Non sorprende il fatto che tuttora l’ossatura del parco tranviario torinese sia composta da centinaia di motrici “made in Fiat”. Meno conosciuta è l’esportazione verso Madrid nel cruciale 1942, simboleggiata dalla foto del tram bianco e blu che si libra nell’aria, sorretto da una gru, al porto di Genova. Centinaia di milioni all’anno sono i passeggeri che, in Italia, si muovono su motrici tranviarie costruite da quello che fu un gigante italiano anche in questo campo, fino alla cessione avvenuta all’inizio del nuovo millennio.
Gli ultimi tram piemontesi hanno lasciato le linee di montaggio nel 2003 diretti a Roma, Messina e Torino. Da allora più nulla, complice anche il solito destino del trasporto pubblico italiano, caratterizzato da una scarsa programmazione degli acquisti, con le relative ricadute in termini di politica industriale a lungo termine. Il confronto con un’Europa che riscopre il tram è stridente, non solo in termini di mobilità sostenibile ma anche riguardo al mantenimento e alla creazione di posti di lavoro.
L’unico stabilimento rimasto sul territorio, quello di Savigliano, è passato dalla proprietà Fiat a quella della francese Alstom e si dedica ormai da molti anni ai soli veicoli ferroviari; per nulla consolante è la totale estinzione del bouquet, un tempo fiorente, di costruttori tranviari italiani al di fuori del Piemonte, con un’unica eccezione in Toscana.
Se dell’antica Fiat Materiale Ferroviario resta almeno una discendenza, tutto il resto è scomparso. Gli impianti delle Officine Moncenisio si riconvertirono nella siderurgica Vertek, lasciando soltanto un vecchio locomotore color “castano Isabella” in un cortile a testimoniare i fasti trasportistici di un tempo. Riguardo alla torinese Savigliano Spa, ex Snos, gli eleganti capannoni – e un tempo non era affatto un ossimoro – hanno fiutato il mutare del vento trasformandosi in centro commerciale con loft à la page; se però la società non realizza più nulla da anni, oltretutto dopo una riconversione ad altre produzioni, sorprende la curiosa permanenza online del sito aziendaleLe sponde torinesi del Po, infine, non restituiscono nemmeno la lontana memoria di quel che fu lo stabilimento Diatto. 
Non è dato sapere se questo comparto dell’economia industriale piemontese, un tempo tanto fiorente anche in termini di occupazione, potrà mai tornare alle produzioni tranviarie; oggi i giochi sono decisi altrove, in quanto i centri decisionali, sia in termini di produzione sia di acquisto delle vetture, sono spesso lontani dal Piemonte. A parziale consolazione, quantomeno, rimane la presenza della torinese Atts (Associazione Torinese Tram Storici), la più attiva organizzazione italiana tra quelle nate per salvare, conservare e valorizzare le motrici tranviarie d’epoca. Il suo parco veicoli comprende ormai decine di esemplari costruiti dall’inizio del secolo al 1959, ovviamente con una massiccia presenza di vetture nate negli stabilimenti piemontesi; questa collezione in movimento è oggi il modo più affascinante per visitare la città senza fretta, toccando con mano la modernità tuttora esibita da queste caratteristiche “vecchie signore”.
Tra loro, forse, la regina è proprio la sferragliante 116, che circola ancora nei giorni di festa a testimoniare una storia fatta di ingegno e tenacia. Mentre festeggia il suo centenario, ci ricorda che evoluzione tecnica, cura del dettaglio e coraggio nell’affrontare i mercati sono l’unico binario da percorrere, oggi come ieri. 

Questo articolo ha ricevuto una menzione alla IV edizione del Premio Piemonte Mese, sezione Economia

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