Così fecero, nel 1480, il Buco di Viso
di Giulia Dellepiane
Come si fa a scavare una galleria nella roccia senza usare la dinamite? E senza mezzi meccanici? Magari a quasi tremila metri di altezza, dove il clima è spesso impossibile. Non si può fare?
Eppure il marchese Ludovico II di Saluzzo ci è riuscito. Nel 1480, sul Monviso. Per questo il Buco di Viso è il più antico traforo delle Alpi. Una infrastruttura che ha fatto la storia e che è tuttora una meta turistica molto apprezzata. Anche perché è ancora percorribile.
“Il tunnel è piccolo: alto due metri, largo due e mezzo e lungo 75, spiega Andrea Parodi, alpinista e scrittore, laureato in Geologia. Si trova a 2880 metri di altezza e collega il versante francese e quello italiano. È stato aperto per superare il tratto più impervio dell’antica via del sale, che partiva dalla Francia, risaliva fino al colle delle Traversette, a 2950 metri di altezza, ed entrava nella pianura saluzzese”.
Già, il sale: a quei tempi era preziosissimo perché si usava per conservare gli alimenti. “Ma ci passavano anche altre merci, specifica Parodi, come olio, spezie e stoffe dalla Francia verso l’Italia; e riso, lana e pelli nella direzione opposta. Ai tempi c’era il Marchesato di Saluzzo e Ludovico II aveva interesse a promuovere il passaggio diretto con la Francia, in quanto se i mercanti avessero fatto un giro più largo avrebbero dovuto passare da altri stati pagando gabelle e tasse”.
Ma come si fa a perforare una montagna senza la tecnologia di oggi? “C’è una citazione da un antico documento che dice che il Buco di Viso è stato aperto usando ferro, fuoco, aceto e d altri vari espedienti”, continua Parodi. “Metodi arcaici. Prima si scaldava la roccia accendendole un fuoco sotto, poi la si raffreddava di colpo per darle uno choc termico, così era più facile romperla con le mazze. Ci hanno messo anni per fare un lavoro così difficile: un tunnel largo abbastanza da far passare un mulo carico”.
Una curiosità: il traforo quando è stato fatto era lungo cento metri; oggi, a cinque secoli di distanza, ne misura 75. “Il problema di questo tunnel è che sul versante francese la roccia ha una conformazione detta a franapoggio, spiega Parodi, cioè con la neve tendono a staccarsi dei blocchi, frana facilmente e quindi il traforo nel corso dei secoli è stato più volte chiuso e riaperto. Il tipo di roccia lì è metamorfica, cioè è derivata dal fondo di un oceano un centinaio di milioni di anni fa e con la formazione delle Alpi è stata spinta su e modificata dalla pressione e dalla temperatura. Inoltre è scistosa: è divisa in grandi strati e inclinata verso la Francia creando queste frane oltralpe”.
In età moderna il Cai è stato il primo ente che ha valorizzato il Buco di Viso per se stesso, e non per la sua utilità. Per questo l’ha riaperto definitivamente nel 1907 e da allora è stato periodicamente sgomberato dai massi. Ettore Borsetti, segretario generale del Club, ricorda: “Sono stato tra i volontari che lo hanno pulito nel 1974-’75. C’era stato un interessamento del Lions Club Torino Castello con il Consorzio del Po, dei Comuni e della Cassa di Risparmio di Saluzzo. C’è anche una targa sulla sede del Comune di Crissolo che lo ricorda. L’incarico era stato affidato alla ditta Fratelli Maccagno di Barge. Quella volta avevano fatto dei muretti per difendere l’uscita francese e volevano costruire barriere per evitare che la neve ostruisse l’ingresso italiano, cosa che succede tutti gli anni, perché il Buco di Viso è in pendenza verso l’Italia e sbuca in un canalino verso le Traversette. Noi volontari avevamo portato su putrelle e griglie di ferro, come quelle per trattenere i massi, che dovevamo riempire con sacchi di pietre per formare appunto le protezioni. Ma finiti i soldi non se n’è più fatto niente; quei materiali sono ancora lassù e la neve continua ad ostruire il buco”.
La pulitura successiva del Buco di Viso risale al 1998 e al momento è anche l’ultima. Tra i promotori c’era il Rotary Club di Saluzzo il cui presidente allora era l’architetto Giorgio Rossi: “L’idea era nell’aria da un po’ di tempo, ricorda, perché l’anno precedente i francesi avevano provveduto a un piccolo restauro dell’apertura dalla loro parte. Sul nostro versante c’erano alcuni massi che ingombravano l’ingresso, anche se meno rispetto all’altro. Abbiamo trovato artigiani e muratori della Valle Po che erano disposti a fare questo lavoro e la direzione dei lavori è stata affidata a Giancarlo Fenoglio di Crissolo, che è geometra e guida alpina, mentre le procedure sono state seguite da una piccola commissione di nostri soci. I lavori sono durati pochi giorni e hanno coinvolto 3 o 4 persone perché sono stati programmati bene: per non intaccare il paesaggio abbiamo solo fatto rotolare le pietre in una pietraia vicina. Ovviamente abbiamo festeggiato l’inaugurazione con un taglio del nastro con brindisi e una festa al rifugio di Pian del Re offerta dalla famiglia Perotti, che sono guide alpine da generazioni. Era il 26 settembre ‘98. Qualche anno dopo abbiamo realizzato una piccola struttura in legno con la storia del Buco in tre lingue”.
Oggi questa antichissima infrastruttura è molto visitata, come conferma Aldo Perotti, sindaco di Crissolo e presidente della Comunità montana del Monviso, “Poiché non è lontano (tre ore a piedi da Pian del Re), si percorre ancora ed è molto frequentato da una fascia di utenza varia, visto che attraversarlo è agevole: soprattutto giovani (le famiglie italiane vanno poco in montagna, al contrario di quelle francesi) e stranieri. È una vera attrazione: i punti di riferimento quando i turisti arrivano qui sono il Colle delle Traversette col Buco e il Quintino Sella per le escursioni di un giorno. Qualcuno però esprime dispiacere perché la parte francese è parzialmente ostruita. Bisognerebbe attivarsi per risistemarlo, cosa che la Comunità montana intende fare: al momento stiamo cercando fondi e partner. Secondo me bisognerebbe evidenziare il suo primato di traforo più antico: è importantissimo e proporrei di inserirlo in un percorso culturale storico più ampio”.
Bisognoso di un intervento di pulitura, il Buco è percorribile facilmente nella sua interezza da metà luglio fino alle prime nevicate. Visitarlo significa tornare indietro nel tempo, ma anche ricordare uno dei tanti primati del Piemonte.