La storia di Coniolo
di Simone Schiavi
Chi si affaccia al belvedere di Coniolo, paese che dall’Alessandrino guarda il Po e il Vercellese, può vedere, sotto di sé, le ultime propaggini del Monferrato. Tra queste, c’è una collinetta ricoperta dalla vegetazione. Quell’altura non si distinguerebbe dalle altre; se non fosse che oggi è un feudo incontrastato del regno vegetale ma, solo un secolo fa, ospitava oltre mille persone.
È una storia insolita, che merita di essere conosciuta meglio, proprio come la zona affascinante in cui si svolge. Arriviamo a Coniolo un sabato mattina. Il paese, che conta 480 abitanti, è rinomato per le rose di “Coniolofiori”; oggi, però, vanta anche un piccolo museo etnografico, creato e gestito da volontari e dedicato alle miniere locali di marna. Ad accoglierci, una dicitura (“Il paese che visse due volte”) che incuriosisce e un po’ inquieta. Entriamo nei locali sotto il municipio, aperti al pubblico due volte al mese, e mettiamo piede d’improvviso nella storia: l’evoluzione della civiltà contadina, la fame, il rapporto tra cittadini e potere, il mito del progresso; non c’è tema fondamentale che sia trascurato. Una ricostruzione che sfrutta filmati, testimonianze e modelli, con una sezione all’aperto per andare a “caccia” di miniere, ricreando l’epopea centenaria di questi territori.
La marna è un minerale che si posiziona a metà lungo una scala ideale che va dal calcare all’argilla. Materia prima per il “cemento Portland”, ha reso protagonista il casalese, del quale è diventato una vera eccellenza economica. Grandi gruppi cementieri (pensare alla Buzzi Unicem è naturale) dominano tuttora la scena, avendo contribuito a costruire l’Italia; e non è un modo di dire. Sono aziende moderne ed evolute, eredi però di una tradizione che ha visto convivere molte luci e qualche ombra.
Intorno al 1860, il Piemonte rurale è affamato. La vita nei campi è dura e i raccolti instabili; un reddito aggiuntivo sarebbe una manna dal cielo. La risposta ideale è nei fruttiferi giacimenti di marna, appena scoperti. Si inizia a perforare il terreno sotto le colline, compresa quella che sorregge Coniolo Basso Antico. Le miniere si popolano di “gavadur” e le concessioni passano da una a dieci, mobilitando tutta la popolazione.
I primi scavi nel terreno avvengono con metodi primitivi, come perforatrici manuali ed esplosivi rudimentali; soprattutto, le misure di sicurezza sono minime. Le condizioni di lavoro sono infernali, metafora della profondità cui si scende: fino a 150 metri, sottopassando addirittura il Po. Anche il concetto di maggiore età è relativo: già a otto anni ci si cala nel sottosuolo, dove la corporatura minuta non è certo un handicap. Il primo nemico è il famigerato “grisù”, composto del metano sempre pronto a esplodere, specie a causa delle torce a fiamma viva, le uniche a dare un’illuminazione sufficiente.
La richiesta di materiale cresce ogni anno. Nascono così nuovi sistemi di trasporto, in superficie (con ferrovie e teleferiche) e in profondità. Intere famiglie si dedicano a questo lavoro massacrante, ciascuno secondo il contributo che può fornire. Lo scavo sotto le colline, però, mette in pericolo “ben altro”. Il terreno è argilloso e quindi fragile; le concessioni sono soggette a precise “aree di rispetto”, intorno ai paesi, ma alcuni speculatori senza scrupoli le ignorano. È il caso di tale Bertone, attivo nel settore da fine Ottocento. Scavando a ritmi forsennati, fa estrarre quantità enormi di materiale, proveniente da gallerie sempre più profonde. Ignora impunemente la fascia di rispetto sotto Coniolo. Il terreno inizia a dare segni di cedimento; nelle case si formano le prime crepe, e con queste le preoccupazioni. Pare che il paese, sorto intorno alla villa seicentesca dei marchesi Fassati, stia franando lentamente. Gli abitanti si allarmano ma è difficile farsi valere: nemmeno coi primi crolli, che lambiscono perfino la chiesa, l’impresa desiste. I cittadini coinvolgono anche un deputato del Parlamento nazionale. Invano. Le apposite “spie” di vetro per la rilevazione sono tutte saltate; nonostante ciò, gli ispettori inviati a monitorare la situazione non rilevano alcun nesso tra i cedimenti strutturali e gli scavi: la corruzione sembra più che un’ombra. Oltretutto, come spesso accade, i posti di lavoro vengono usati come ricatto, contrapponendo i diversi interessi per soffocare le proteste.
Quando però la situazione degenera, resta soltanto la soluzione estrema: abbandonare l’intero paese prima del crollo. Si recupera tutto il possibile, dai mattoni agli infissi, per ricostruire altrove gli edifici. Soltanto a questo punto, quando è troppo tardi, la concessione del Bertone viene revocata definitivamente. Con il 1922 sono completamente cancellate le 84 case di Coniolo, la chiesa e il castello, oltre a due borgate limitrofe. Sotto l’abitato, è stato asportato uno strato di calcare spesso otto metri; troppo, per non causare un collasso.
Tuttavia, le tribolazioni non sono ancora finite. L’estrazione mineraria continua e negli anni Venti il nuovo concessionario è un nome eccellente, il dinamico e spregiudicato Riccardo Gualino, fondatore e proprietario della SNIA (all’epoca, la più grande azienda italiana). Nuovi nomi, stessi metodi: si scava anche sotto il “nuovo” Coniolo, sempre ignorando le fasce di rispetto.
Quando perfino la ricostruita scuola viene dichiarata inagibile e sgomberata, si comprende che è arrivato il momento di mobilitarsi. Nel 1930, 149 capifamiglia locali presentano una petizione al podestà di Casale. Questi ne ascolta le richieste, sposandole in pieno. Mentre la stella di Gualino si eclissa velocemente, Coniolo trova finalmente pace: l’intero abitato viene inserito in una zona protetta.
Le miniere rimangono ma, stavolta, si lavora con regole chiare e rispettate, al riparo da imprenditori-avventurieri. Gli strumenti intanto evolvono, passando a perforatrici pneumatiche, efficienti dispositivi di sicurezza, esplosivi perfezionati. Paradossalmente ma non troppo, sarà proprio l’attenzione alla sicurezza – insieme all’uso di nuove materie prime – a rendere antieconomiche le miniere della zona, testimoniando come il boom economico si sia retto anche sulle spalle dei lavoratori. Il destino di Coniolo Basso Antico, oltretutto, ha insegnato ben poco: ancora negli anni ‘50, la vicina frazione collinare di Brusaschetto rischia lo stesso destino, tanto da essere ricostruita a fondovalle (in zona alluvionale, tra l’altro); tuttavia, gli abitanti non vi si trasferiranno mai, trasformando il nuovo borgo in un “fantasma” demolito soltanto nel 2010.
La chiusura delle miniere coniolesi arriva intorno al 1960, mentre prosegue tuttora l’attività dei cementifici più importanti, integralmente rinnovati, anche nell’impiego dei materiali. Lo apprendiamo quando è trascorsa un’intera ora dal nostro ingresso nel museo. Si fatica a rendersene conto, siccome la narrazione multimediale sa immergere in una vicenda appassionante i visitatori, anche quelli digiuni di conoscenze in materia. Illustra i primi passi di un distretto economico tuttora fondamentale, pur se meno visibile di altri, e testimonia l’epopea di una popolazione capace di affrancarsi da una povertà oggi inimmaginabile. Un racconto partecipato ma anche ben collocato nel suo contesto storico, senza distorcerlo artificiosamente con la sensibilità dell’oggi.
L’insegnamento più importante, però, è forse un altro: la conferma della straordinaria intelligenza e capacità di adattamento dell’uomo; tanto spiccata, però, da portarlo a cancellare in pochi anni il suo stesso habitat, nel più feroce dei paradossi.
Questo articolo ha vinto la V edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura e Ambiente
Le immagini sono tratte dal sito www.museodiconiolo.it