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La favola del Villaggio Leumann – di Federica Vivarelli

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La favola del villaggio Leumann

di Federica Vivarelli

Una manciata di casette colorate ben disposte in fila, tetti di legno a punta e vialetti con il verde del prato curato nel dettaglio. Non manca mai qualche gatto a zonzo o acciambellato sui davanzali delle finestre. Se non fosse per la scritta “Collegno” che si incontra poco prima, e per il fatto di essere nel bel mezzo del corso Francia, si potrebbe scambiare quest’isola urbana per il villaggio di Babbo Natale. Villaggio d’altronde lo è. Il Villaggio Leumann.
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Per me significa tutto: la mia famiglia, la mia casa, la mia storia”, racconta Michelina Marietta, mentre apre il lucchetto di ingresso della sua piccola staccionata di legno. “Ma molti si chiedono se siamo veri o finti, e tentano di entrare nel nostro giardino”.
Il Villaggio è un raro esempio di architettura operaia. Una rarità in Italia, dove se ne possono contare solo altri due esempi, e non di questa portata. Ma entrare nel Villaggio Leumann fa venire voglia di sedersi attorno a un fuoco ad ascoltare una storia che si materializzerà di lì a poco. Persino il rumore del traffico arriva ovattato.
Non esiste allora oratrice migliore di Michelina, la piccola sartina, classe 1933:  “Ho messo piede nel cotonificio nel 1946, avevo tredici anni, e ho passato lì dentro tutta la mia vita”.
Il villaggio prende il nome dal suo fondatore Napoleone Leumann, imprenditore che nel 1875 si sposta da Voghera a Collegno, “perché dov’era prima gli abitanti si lamentavano del rumore. È arrivato qui, tanto a chi dava fastidio? Intorno c’era solo campagna”, sottolinea Michelina. L’industria tessile arriva così alle porte di Torino. Costo dell’impresa, lire tre al metro, per un totale di ottantamila metri quadri, e oltre ottocento dipendenti, oltre l’80% dei quali donne.
Si lavorava sei giorni la settimana, con gli straordinari la domenica mattina. Erano altri tempi: la parola “cassa integrazione” non sapevamo neppure cosa fosse” spiega Michelina, gli occhi azzurri che le brillano.  “C’era tanto lavoro, perché la guerra era appena finita. La paga? Ricevevamo il corrispettivo di tre chili di pane e un litro di latte. Sono entrata a tredici anni: all’inizio non volevano farmi lavorare, dicevano che ero troppo piccola. Ma come facevamo? I miei due fratelli sono morti da partigiani in guerra, dopo di me c’erano altre tre bocche da sfamare. Non era per nulla facile, ma c’era tanto bisogno di lavoro”. E la piccola sartina inizia così la sua avventura nel cotonificio. Così come era stato in precedenza per sua madre, e prima ancora per le sue zie. E per quel ragazzo che poi diventerà suo marito.
Nel cotonificio Leumann si arrivava a produrre al giorno una media di mille metri di stoffa, che poi veniva cucita per farne abiti da donna: “Eccola qui, continua Michelina mentre prende dal cassetto dei lunghi aghi avvolti in uno strofinaccio”.  “Facevamo questo famoso ricamo bianco e rosso, perché io mi occupavo di questo. Non era facile, proprio per nulla. Tutto a mano, e si doveva correggere una trama, seguire una linea, anche per ottanta metri di stoffa. Arrivavamo a stare in una posizione assurda anche per sei ore di fila” aggiunge, mentre imita la posa da assumere: un ginocchio tirato su, la stoffa sopra, la vista vicina all’ago. Questo era il reparto pulitura. Ma il grosso del lavoro avveniva nelle sezioni tessitura, dove le donne avevano a che fare con circa ventiquattro macchine a testa, “E le vedevi correre su e giù per corridoi lunghi una cinquantina di metri. Faceva anche caldo, perché il cotone doveva mantenersi umido. Lavorare nel cotonificio, ha significato però questo, prosegue la piccola sartina, indicando le mura della sua casa,  ha voluto dire un modello per molte aziende oggi: i padroni non solo avevano pensato quello spazio per la fabbrica, ma anche per l’asilo e la scuola dei figli. C’era anche un convitto per la ragazze che arrivavano da altri paesi, ad esempio da Almese, e stavano lì durante la settimana. Tornavano a casa il sabato sera, e si nascondevano allora la busta paga nelle calze”. C’erano poi le lezioni di pallacanestro, di fisarmonica, i bagni, le poste, la stazionetta del treno, la chiesa. 
Il cotonificio non solo era il luogo di lavoro, ma forniva ai suoi lavoratori le occasioni di tempo libero. “Le donne non erano penalizzate come vedo oggi” aggiunge Michelina. “Ti sentivi più tranquilla nel poter contare su un luogo pulito e sicuro dove lasciare i tuoi figli. Rendevamo molto di più”. Altre donne affittavano dei piccoli appartamenti nelle vicinanze,  “e vedevi in poco spazio un tale cumulo di letti! Lo usavano solo per dormire, e visto che non riuscivano a conservare nulla in quei buchi, il loro pasto era fatto di patate bollite e scatolette di “Kromerbeef”, carne in gelatina tagliata a quadri”.
È il ’63 quando inizia a incrinarsi qualcosa: “Una volta la fabbrica era il luogo dove le persone si incontravano, nascevano famiglie, amicizie, amori. Poi all’improvviso arrivarono dei nuovi caporeparto, e portarono una tragedia per noi: il lavoro a cottimo”.Una ventata gelida di modernità che spazza via  “l’idea di lavoro come piacere personale e di riuscita. Come si poteva pensare di lavorare a cottimo nel rammendo? Nella tessitura, invece, ogni macchina era collegata a una luce: quando la lavoratrice si soffermava troppo, al caporeparto risultava una spia accesa per troppo tempo, e richiamava all’ordine. Nacquero così le invidie e le ritorsioni tra colleghi, e il lavoro divenne un affanno, una corsa stressante”.
Si annoda una matassa che non si riuscirà più a sbrogliare. C’è chi dà la colpa all’incuria degli eredi, chi a una lite tra soci, ma questo Titanic si è già scontrato con il suo iceberg. Ironia della sorte, il 2012 segna un bizzarro anniversario: nel 1972, quarant’anni fa, l’azienda si blocca: “Non c’era lavoro, abbiamo occupato il cotonificio per undici mesi” riprende Michelina.  “È la sera del 2 luglio quando il sindaco di Collegno ci raggiunge, requisisce la fabbrica. Il padrone è nel suo ufficio e lascia nelle nostre mani le chiavi del cancello: il cotonificio è nostro”. E con lui, anche il suo tracollo. “Sono stati mesi intensi, stavamo all’erta giorno e notte”, spiega Michelina. “Avevamo paura che qualcuno appiccasse un incendio, e di andare in prigione. Ma poi nulla: siamo riuscite a salvare le case, ma non il nostro lavoro”. Il cotonificio viene venduto, il suo terreno lottizzato e venduto ad altre aziende. Una piccola parte del cotonificio prosegue fino al 2007. Le case vengono salvate dalla città di Collegno, che compra e mette in affitto le cinquantanove villette esistenti.
Oggi del Villaggio Leumann restano le case, la chiesa, la scuola. E naturalmente gli abitanti: “Dei vecchi tempi non siamo che rimasti un’ottantina. Quando ci incontriamo ricordiamo sempre le nostre avventure da giovani, che anni!”. Si chiude così un album dei ricordi che tuttavia rimarrà sempre aperto perché, conclude la piccola sartina,  “ogni mattonella di questo posto parla di noi, della nostra storia, del nostro sogno e soprattutto della nostra lotta”.

Questo articolo ha ricevuto una menzione alla V edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura e Ambiente

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