Una sbirciatina dietro le quinte del Regio
di Marina Rota
Gli orchestrali nel golfo mistico accordano gli strumenti; e i melomani del Regio, affondati nelle poltroncine rosse, si godono a occhi chiusi l’armoniosa dissonanza che prelude all’inizio dell’avventura lirica, e pare dar voce alle contrastanti sensazioni che vivono in quel momento i cantanti prima di entrare in scena.
L’afonia è ovviamente psicologica, ma occorre considerarla reale, predisporre litri d’acqua ovunque e magari tenere a disposizione qualche acciuga salata per rinfrancare le corde vocali affaticate dei tenori, anche di quello che si è sempre vantato d’aver lanciato un tale strillo alla nascita da incrinare il vetro degli occhiali del medico e da far saltare la capsula di un dente della levatrice…
Sono professionisti di alto livello che arrivano in città con l’opera già studiata e memorizzata, e da settimane non fanno che sostenere prove: prove musicali con pianista e direttore d’orchestra per mettere a punto tempi e respiri; prove di regia per i movimenti scenici, prove d’assieme con l’orchestra, anteprima con costumi e luci, e infine le due prove generali (una per cast) che rappresentano il primo impatto col pubblico: un passo psicologicamente così irrinunciabile che risulta penalizzato chi, per qualche motivo, non lo possa sostenere.
Eppure, al debutto, tutti hanno paura, anche (specialmente) i più bravi, con un nome da difendere.
Un soprano trema in attesa del suo debutto (che sarà splendido) e sussurra ironicamente al direttore di scena che le stringe la mano per rincuorarla: “Sai Riccardo, ogni volta mi chiedo perché non ho fatto la ragioniera…”
Un’altra cantante, famosissima, alla vigilia della prima diviene vittima di attacchi di claustrofobia: le manca l’aria, si sente soffocare nel suo camerino – che si trova, come tutti, al primo piano sottoterra – e si rilassa solo quando le assegnano un piccolo locale nel retro dell’entrata degli artisti, utilizzato come deposito, ma dotato di una finestra.
L’ansia esaspera distrazioni o manie e semina il panico fra gli addetti ai lavori: alla serata Mayerberg, in cui si succedevano vari artisti, il soprano che avrebbe dovuto salire sul palcoscenico si rese latitante. Un direttore di scena riuscì a rintracciarla e a convincerla a salire sul palco, quando già era finita da qualche minuto l’esibizione precedente, incoraggiandola con una leggera spinta. Immaginabile il suo spavento quando la vide crollare a terra, forse svenuta: in realtà la cantante si era inginocchiata per farsi il segno della croce e recitare fervidamente l’Ave Maria; lo stesso direttore la ricacciò prontamente dietro le quinte.
L’ansia dei cantanti raggiunge il parossismo quando sono chiamati a esibirsi in opere considerate menagramo, che non vengono mai neppure nominate, perché anche solo pronunciarne il titolo equivarrebbe ad attirare sciagure su teatri e artisti, prime fra tutte Macbeth e La forza del destino, rispettivamente, secondo gli eufemismi più diffusi, “Il dramma scozzese” e “La potenza della sorte”. Impossibile risalire alla motivazione di queste convinzioni. Se nella prima opera, tratta dal famoso dramma shakespeariano, potrebbe giocare un ruolo il tema della stregoneria, o (più plausibilmente) il fiasco della prima rappresentazione (Verdi deluse il pubblico con un’opera “senza amore” concentrata sulla psicologia del potere), nella seconda già i due amanti protagonisti
Si mormora nell’ambiente che in fatto di sfortuna non scherzi neppure Il Dibuk di Ludovico Rocca, e un altro titolo non menzionabile è Les Contes d’Hoffmann.
Lo spauracchio classico degli artisti è, o era, il viola, forse in ricordo del colore dei paramenti liturgici sacri durante la quaresima, quando era vietata in passato qualunque rappresentazione in pubblico, con conseguenti periodi di povertà per i teatranti. La superstizione, che ora pare superata da alcuni arditi che amano indossare sempre qualcosa di purpureo, era ben viva nella Callas: ancora memorabile la sua scenata quando, chiamata ad inaugurare il rinato Regio nel 1973 con la regia de I Vespri siciliani, si avvide incredula che il colore dominante del teatro di Mollino era proprio il viola; e pretese, per contratto, che il proscenio venisse ridipinto.
Se le ansie dilagano, pare che invece il primadonnismo sia passato un po’ di moda. Questo vale sia per i divi del canto sia per i direttori d’orchestra, e particolarmente amati sono i simpatici e affabili Gianandrea Noseda o l’israeliano Pinchas Steinberg.
A proposito di protagonismo, alcuni si domanderanno quale, fra i celebrati “Tre Tenori”, fosse il più divo: José Carreras è adorato per la sua sensibilità, e Placido Domingo per il fascino e la simpatia, mentre quello che si aggirava circospetto, perennemente circondato da una corte che lo rendeva inaccessibile, era proprio lui, l’apperentemente giovalone “Big Luciano”. Al Regio ricordano ancora un episodio legato alla Bohème rappresentata nel 1996 per celebrare il centenario della prima assoluta dell’opera, che si tenne proprio a Torino.
Le fotografie di questo articolo, tranne quella con Maria Callas, sono di Lucilla Cremoni