La storia del lnguaggio e del costume negli antichi atti notarili
di Andrea Musazzo
Quando pensiamo ad antichi atti notarili immaginiamo, non a torto, qualcosa di tecnico, formale e per lo più noioso. Sono in molti a stupirsi nello scoprire che quegli stessi documenti, magari dimenticati per secoli, portano a galla notizie interessanti non solo dal punto di vista dello storico di professione, ma anche del linguista e, molto più semplicemente, di chiunque sia disposto ad ascoltare la voce del passato.
Anche il Piemonte è ricco di archivi storici e di biblioteche dotate di importanti fondi antichi. Per dare un’idea di cosa si può trovare nei protocolli notarili, prenderemo in considerazione l’archivio storico del Comune di Vercelli, che in passato fu sede di un’importante arcidiocesi e centro strategico nel panorama dei domini sabaudi.
Al di là dell’emozione che si prova aprendo cartulari che in qualche caso non sono mai stati esaminati da uno studioso moderno, quello che più colpisce è la straordinaria vitalità degli atti. Si può scoprire addirittura qualche documento divertente, come quello di un certo Pietro Avogadro, notaio che fu chiamato per testimoniare che un’adultera si trovava a letto con l’amante. Nonostante la vicenda non risulti del tutto chiara, quell’atto si lascia apprezzare per la lingua e per le informazioni storiche che lascia emergere; per esempio, anche se non sapessimo nulla sull’attività di notaio nella prima età moderna, scopriremmo che questa figura era chiamata a svolgere funzioni che toccavano i più vari aspetti della vita quotidiana – oggi nessuno, in una situazione simile, si sognerebbe di chiamare un notaio!
Prima di assaporare il piacere della scoperta, occorre tener conto almeno di un paio di ostacoli: il tempo, nemico della carta, e la grafia di alcuni notai o scrivani. Il primo è insormontabile, il secondo può essere superato con un po’ di pazienza. Inoltre, l’uso del latino potrebbe creare qualche problema, ma in tal caso, in Piemonte sarebbe sufficiente cercare atti posteriori al 1561: proprio in quell’anno Emanuele Filiberto di Savoia decretò il passaggio dal latino al volgare negli atti pubblici, inclusi quelli notarili. Anche se altrove in Italia il volgare era usato già da tempo, il caso piemontese spicca perché quello di Emanuele Filiberto fu un vero e proprio intervento di politica linguistica, una scelta aperta in favore dell’italiano, che da quel momento divenne la lingua ufficiale della burocrazia.
Quando si parla di documenti scritti in Piemonte nel Cinquecento, occorre tenere presente che la lingua impiegata era ancora, in linea di massima, quella che gli specialisti chiamano Koiné settentrionale, dal termine greco che significa “comune”: una scrittura che risentiva fortemente di elementi regionali o dialettali e di latinismi grafici e lessicali.
La presenza del dialetto italianizzato è forte soprattutto negli inventari, dove sono elencati vari oggetti di uso quotidiano per i quali difficilmente il notaio o il suo scrivano avrebbero potuto inserire la parola toscana corrispondente, semplicemente perché era sconosciuta. Questo tipo di documenti è interessante, oltre che per la lingua, anche perché permette di farsi un’idea su ciò che non poteva mancare in una casa vercellese di metà Cinquecento. Affiorano parole come butiro (burro), cazulo(mestolo), cadrega (sedia), mantil (tovaglia), cebro da bugata (oggi si direbbe in dialetto sebar da bugà, cioè “bigoncia per il bucato”), cadena da foco (catena da focolare), barnazo (in dialetto bernass, è la pala da focolare), olla (orcio), siul (scure).
Anche fuori dagli inventari i regionalismi abbondano, come la locuzione meistro de legnamo, calco del dialettale meistr da bosc (falegname). Questo breve elenco offre una prima impressione su quale potesse essere l’italiano non solo scritto, ma anche parlato, da chi volesse usare una lingua diversa dal dialetto. Il procedimento era quello che ancora oggi capita di ascoltare sulla bocca di chi, quasi per gioco, inserisce voci dialettali espressive in una conversazione in italiano: per lo più si applicano le vocali finali, che nel dialetto tendono a cadere.
Ben si comprende, a questo punto, il motivo per cui le ricerche in archivio possano trasformarsi in una passione: un nome o una parola sconosciuta spesso danno luogo a catene di ricerche parallele che stimolano ininterrottamente la curiosità. Ad esempio, la presenza di una parola come zerbo (in dialetto gerb, terreno incolto), consente di ipotizzare l’etimologia di almeno un toponimo: la spiaggia chiamata ancora da qualcuno “i Serbùn” sulla riva destra del Sesia, non lontano dalle chiuse di Palestro, deve forse il suo nome proprio all’aridità del suolo. A volte un documento fa riemergere dall’oscurità persone che dovettero godere di una certa fama, come Branda Porro. Il nome è noto a pochissimi, ma da una veloce ricerca si appura che si tratta di un filosofo milanese che insegnò all’Università di Pavia intorno alla metà del XVI secolo. Con un po’ di fortuna si può anche trovare qualche nome importante, come quello di Bernardino Lanino, pittore chiamato a sottoscrivere un contratto di locazione in qualità di testimone il 13 luglio 1560.
Il vero tesoro nascosto negli archivi e nelle biblioteche, non solo piemontesi, è il patrimonio di laude, canzoni, preghiere e proverbi spesso inseriti negli spazi dei protocolli rimasti bianchi. Questi sono i testi che hanno reso chiara l’importanza delle carte notarili tra filologi e storici della lingua, anche se già Muratori, nel Settecento, andava in cerca del volgare tra gli antichi documenti d’archivio redatti in latino. Il ritrovamento di un testo che contribuisca a documentare la situazione del volgare in Piemonte, magari prima del Quattrocento, sarebbe una bellissima scoperta, ma i documenti di questo tipo sono pochi. Allora ci si può divertire cercando di interpretare quei proverbi che emergono talvolta dalle carte e in certi casi assomigliano a indovinelli. Uno di questi, scritto da un notaio in apertura di un cartulario, recita: “Al vechio si fa più presto de piglar la campana da dormire et lasar quella che sona del levare che cerchar donne”. Anche dopo aver decifrato la grafia originale, in questo caso abbastanza oscura, non è così semplice cogliere immediatamente il senso della massima, che pare possa essere così interpretata: sarebbe meglio togliere agli anziani la campana che suona l’ora del riposo e lasciare quella del risveglio, perché certo non si dedicherebbero ad attività giovanili come il cercar donne. Ecco un’altra prova della vivacità di cui si è parlato.
Il sogno di chi conduce pazienti ricerche d’archivio è scrivere un nuovo capitolo nella storia della sua disciplina. Ma anche senza scoperte eccezionali, ogni parola scritta in passato è un tesoro da proteggere.
Questo articolo ha ricevuto una menzione alla VI edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura Storia e Ambente