Ma Abdul, somalo “rinato a Settimo”, non demorde
di Emanuele Franzoso
Vengo da un altro mondo ma non mi sento un ospite a Torino”. Il protagonista di questa storia ha 24 anni e le sue vicissitudini potrebbero richiamare una canzone di Caparezza. Ma Abdullahi non viene dalla luna. Cinque anni fa è arrivato in Italia dopo sei mesi di viaggio iniziato a Mogadiscio, dove non è nemmeno possibile ottenere un regolare documento per l’espatrio. “Ho viaggiato per settimane in Sudan e in Etiopia, dove sono stato anche rinchiuso in prigione insieme alla comitiva con cui viaggiavo, poi siamo stati liberati e il viaggio è ripreso” , ricorda Abdul – come si fa chiamare, accorciando il suo nome (“si memorizza più in fretta”).
Una data che non dimenticherà mai è il 23 giugno 2008: dopo quattro giorni a Lampedusa, infatti, Abdullahi è stato trasferito a Settimo Torinese, presso il centro “Fenoglio” gestito dalla Croce Rossa, dove è rinato. A Torino in quei mesi si era insediata una delle Commissioni per il riconoscimento dello status di rifugiato e Abdul fu tra i primi a sottoporsi al colloquio, con esito positivo e avvio dell’iter per l’asilo. “Nel mio Paese non ho mai conosciuto la pace, per questo sono stato costretto a scappare. All’Italia devo tanto perché mi ha accolto, salvato e ospitato. Devo tanto soprattutto a quegli italiani che ogni giorno, riconoscendosi nei valori dell’accoglienza, aiutano e sostengono me e i miei fratelli rifugiati. Non sono nato in Italia ma oggi posso dire che sono rinato qui, precisamente a Settimo Torinese, essendo cittadino e quindi non più un ospite, in Piemonte lavoro seriamente, pago le tasse e partecipo alla vita sociale. Per questo mi sento parte di questa società”.
A vent’anni c’è spazio anche per i sogni, come costruirsi un futuro e magari tornare a casa. In questi anni Abdul ha sempre aiutato la sua famiglia grazie al lavoro di mediatore interculturale, ottenuto dopo corsi specifici. Il prossimo obiettivo è la cittadinanza italiana. “Non avrei pensato di richiederla e nemmeno sapevo se sarei arrivato in Italia o in un altro Paese ma adesso, nonostante sia difficile, dato che non posso tornare nel mio Paese ho deciso di provarci”, rivela. Ma non è semplice diventare italiani: per un rifugiato servono cinque anni di residenza e un lavoro stabile e continuativo negli ultimi tre. Fra un mese ad Abdul scadrà la cassa integrazione in
L’anima del progetto nelle scuole, organizzato da Mysound e Almateatro, è Enza Levatè, la “professoressa Enza”, come la chiama per sottolineare la stima per una “migrante italiana” (“I miei genitori, originari di Napoli, sono arrivati al nord negli anni Settanta e io ho studiato e lavorato a Londra per molti anni”, racconta Levatè). La collaborazione nasce da alcuni progetti teatrali. Anche questa è integrazione, e se l’Italia non coincide esattamente con quella sognata durante il viaggio-fuga, non è nemmeno da buttare: “Ai giovani che incontro, italiani o figli di stranieri – le seconde generazioni insomma – ricordo che l’Italia, ad esempio, ha una scuola pubblica e una sanità che non tutti i paesi del mondo possono vantare (in Somalia dall’inizio degli anni Novanta le scuole sono privatizzate e molte famiglie non possono mandare i figli a scuola ndr.). E poi in Italia c’è la pace”.
Abdullahi è attivo anche fuori dal Piemonte, e ha partecipato a Stanze, un docu-film dei fratelli De Serio in cui racconta il
Un ultimo messaggio da lanciare ai giovani che convivono con la crisi? “Non arrendersi mai, rispettare gli altri e il proprio Stato, ricordandosi che in Italia ci sono anche molte cose che funzionano meglio che altrove, dove ad esempio scuola e sanità non sono accessibili a tutti. Infine da immigrato e rifugiato mi permetto di sottolineare che se i giovani lasciano l’Italia per andare all’estero, un sentimento che percepisco diffuso, è difficile pensare a un futuro per questo Paese”.