Terre rosse, pietre verdi e blu cobalto
di Gabriella Bernardi
“Buongiorno! Sono il cuneo 04/24/1. Quando ero giovane, per intenderci, quando ero ancora allo stato idrotermale nelle viscere delle Terre Rosse del Vallone dell’Arnàs, a Usseglio (in quello che – e mi fanno ridere – i geologi e gli archeologi si ostinano a chiamare “Filone 1, sottosettore vattelapesca”), Italo Calvino mi aveva proposto di fare il protagonista di un suo racconto. Ho rifiutato. Si sa che i giovani non hanno la visione d’insieme… così non sono diventato famoso come Qfwfq. Però non me la sono cavata tanto male. Oggi soggiorno in una luminosa vetrina del Museo di Usseglio, ogni sei mesi gli esperti mi controllano (loro dicono che fanno il “monitoraggio”), migliaia di persone mi osservano, commentano, insomma sono quasi una star e non mi lamento. Specie se penso alla vita che ho fatto, una storia nella storia, nella storia…”
Ma agli occhi dei più sfugge un grande complesso archeominerario a cielo aperto di età medievale e moderna che si estende ad alta quota, tra i 2250 e 2850 metri di altitudine.
Da oltre un decennio è oggetto di un programma di studio e di valorizzazione storico-ambientale voluto e perseguito da Maurizio Rossi e Anna Gattiglia, e una prima sintesi delle loro ricerche è presentata nel volume Terre rosse, pietre verdi e blu cobalto, Miniere a Usseglio, pubblicato nel 2011, che raccoglie i contributi di diciotto studiosi del Dipartimento di Scienze Mineralogiche e Petrologiche dell’Università di Torino.
L’aspetto più straordinario del complesso è una serie di trincee a cielo aperto ottimamente conservate, larghe e profonde sino una decina di metri. Sono il risultato dello scavo manuale dei cosiddetti “prodotti di alterazione della siderite” come limonite e goethite (ossidi e minerali con alte concentrazioni di ferro, ndr) avvenuto fra il XIII e l’inizio del XVI secolo. Dove i filoni non affioravano, perché ricoperti da detriti, i minatori hanno scavato pozzi, fosse e gallerie discendenti protette da muri laterali e da lastroni orizzontali ancora oggi facilmente individuabili da occhi attenti. L’utilità di questi ripari della vena da scavare era dovuta principalmente alle condizioni estreme della montagna: potendo lavorare all’incirca da maggio a fine estate era necessario poterlo fare senza la neve o il ghiaccio della passata stagione, così le lastre di pietra fungevano da protezione.
Le ricerche d’archivio hanno fornito altre informazioni, ad ad esempio che lo sfruttamento era diviso in lotti dati in concessione. Sin da prima del 1264, il minerale estratto era trasportato a Forno di Lemie, a una quindicina di chilometri a valle delle miniere, dove i forni da cui il paese prende il nome producevano ghisa e altri semilavorati ferrosi per le fucine di Avigliana e di Giaveno, che a loro volta forgiavano acciai pregiati destinati al commercio su scala continentale.
Dagli studi si scopre che nel 1318 proveniva da Forno di Lemie il 55% dell’acciaio usato per la ristrutturazione del castello di Torino (l’odierno Palazzo Madama) e tra il 1333 e il 1335 era attiva a Usseglio una miniera di argento che probabilmente sfruttava concentrazioni locali di minerali del gruppo della tetraedrite. Con questo metallo fu realizzata un’immagine destinata alla chiesa San Ludovico a Marsiglia commissionata dalla marchesa Margherita di Savoia, vedova di Giovanni I di Monferrato.
Dal 2009 il patrimonio archeominerario di Punta Corna è tutelato dal Comune di Usseglio mediante l’istituzione di un’area protetta di dieci chilometri quadrati, dove si avvicendano studiosi di storia della metallurgia, turisti e scolaresche. Per tutti c’è il Museo Civico Alpino, vicino alla Chiesa di Usseglio (www.antropologiaalpina.it).