Giacomo Ristolassio nella Chieri medievale
di Alessandra Leo
Sembra impossibile che la caotica Piazza Mazzini, nella città di Chieri, nasconda un passato così ricco di mistero. Macchine vanno e vengono a gran velocità, suonano i clacson e parcheggiano. Mamme affannate e padri ritardatari attendono che i loro figli escano dall’elegante Palazzo Mercadillo, ex Congregazione di Carità da tempo trasformatasi nella sede di una tra le scuole elementari più qualificate della zona.
Ma questo palazzo potrebbe raccontare ben altre storie: storie di dolore, ingiustizia e coraggio. Palazzo Mercadillo è infatti situato nel cuore della piazza medievale che aveva il nome di Platea Marchadilli perché l’omonima famiglia dell’aristocrazia chierese ne possedeva quasi tutti gli edifici. Nel XIV secolo botteghe artigiane e banchi del mercato facevano della piazza il centro della vita cittadina: era conosciuta anche come la “piasa del mercà dj’eouv”, o piazza del mercato delle uova, in nome del fiorente commercio di uova e pollame che aveva luogo quotidianamente.
Tuttavia, oltre al vociare delle massaie non era raro sentire anche urla strazianti: questo era anche il posto destinato alle esecuzioni capitali e ai roghi degli eretici, ed è qui che il 10 marzo 1395 fu eseguita la condanna del cataro Giacomo Ristolassio “al rogo con il privilegio di essere strozzato prima che si desse fuoco alle fascine”, come recano scritti gli atti del processo ora conservati nell’Archivio di Stato di Torino e pubblicati nel 1987 dal barnabita padre Boffito.
Ristolasso era un semplice fabbro, dall’animo puro e il cuore grande, anche se acceso da un certo fanatismo. L’eresia catara, che proponeva un dualismo tra Bene e Male e vedeva Cristo come una potente Luce in mezzo alle Tenebre del mondo oscuro della Materia, lo portava infatti a rifiutare ogni aspetto corporeo della vita umana – cibo, lavoro, guerre e la proprietà privata – ma anche il battesimo e il matrimonio. Ciò era inaccettabile per la Chiesa e per il braccio secolare, che affidò quindi al Comune di Chieri il potere civile di eseguirne la condanna.
Padre spirituale dell’ingenuo Giacomo Ristolassio era stato un certo frate Angelo, per il quale provava autentica venerazione: “Un giorno, mentre con frate Angelo venivo da Villastellone a Santena, disse lui stesso all’inquisitore, ispirato dallo Spirito Santo ho battuto il piede tre volte per terra ed ho detto “qui c’è Cristo” poi ho piegato le ginocchia davanti a lui”. Il fabbro era stato chiaro: mai e poi mai avrebbe abbandonato o rinnegato il suo maestro, perché sarebbe stato come separarsi da Cristo.
All’epoca di Ristolassio i catari erano ben radicati nel Chierese, tanto che nel 1388 vennero stanati altri eretici le cui deposizioni non lasciavano dubbi sull’esistenza di gruppi che si riunivano in “Agapi fraterne” in cui uomini e donne stavano insieme e bevevano intrugli preparati dalla strega Bilia la Castagna. Ci è arrivata notizia di un particolare intruglio che veniva preparato la sera della vigilia dell’Epifania e fatto con lo sterco di un rospo che lei stessa teneva sotto il letto e nutriva con carne, pane e formaggio. Nel miscuglio vi erano inoltre i suoi capelli bruciati e peli pubici: chiunque avesse bevuto anche solo un sorso di questa pozione, sarebbe entrato per sempre ed indissolubilmente a far parte del gruppo ereticale. Un sorso di troppo, invece, avrebbe fatto gonfiare l’adepto fino quasi alla morte. Le riunioni catare avevano segretamente luogo in località dei dintorni come Ponticelli, Fontaneto, San Salvario e San Felice.
Non si sa con certezza se Ristolassio facesse parte di una specifica congrega, tuttavia la sua fede nell’eresia era innegabile, e fu proprio l’ostinazione la causa della sua morte: al contrario del ferro che per mestiere batteva, non si era mai lasciato piegare dalle minacce dell’Inquisizione.
Originario di Carmagnola, fu arrestato a Villastellone tra la fine del 1394 e l’inizio del 1395 e poi rinchiuso nelle carceri del comune di Chieri. Furono probabilmente le sue stranezze e l’eccessiva venerazione per frate Angelo ad avere attirato lo sguardo del braccio secolare. L’interrogatorio del magister(titolo che veniva attribuito agli abili artigiani come lui) durò ben nove giorni di acuta sofferenza conclusi con una richiesta di pentimento. Ma il fabbro scelse invece di andarsene ardendo tra le fiamme di Piazza Mercadillo.
La notte prima della sua condanna Ristolassio chiese ai suoi carcerieri di fargli un po’ di luce, e al loro rifiuto il commento del fabbro fu ironicamente spiazzante: “Io peccatore non posso avere un po’ di luce […] questi frati invece quando sollevano un pezzo di pane ne hanno molta. Sono convinto che ciò che essi innalzano nella elevazione è solo un pezzo di pane, non Cristo”.
Il giorno del verdetto arrivò. La piazza attendeva il verdetto, nella vicina chiesetta di San Domenico l’Inquisitore Giovanni da Susa lesse la sentenza di morte e sequestro di tutti i beni come previsto dallo st atuto del Comune di Chieri del 1311 (Statuta capitula seu ordinamenta civitatis Carii de anno 1311”, ora custodito nell’Archivio Storico Comunale). L’atto ufficiale fu reso pubblico dal notaio Emanuele Matta, sotto giuramento, per scoraggiare eventuali emulatori.
Al povero Ristolassio il breve percorso fra la chiesa e la piazza dovette sembrare lungo un’eternità, tra tamburi e trombettieri che suonavano allegramente come un giorno di fest, e donne e uomini che accorrevano da ogni parte per vedere il macabro spettacolo.
Legato ad un palo, nel centro della piazza, gli fu chiesto un’ultima volta di ritrattare, ma la sua risposta fu categorica, e “in tale perfidia e falsa opinione perseverò anche quando fu divorato dal fuoco, tratto in inganno dalle sue convinzioni”.
Ma prima dell’esecuzione, un’ultima provocatoria richiesta: che venissero conservati i suoi abiti, perché dopo il terzo giorno sarebbe risorto dai morti.
Questo articolo ha ricevuto una menzione alla VII edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura, Storia, Ambiente