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L’ora antica torinese – di Marina Rota

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Una passeggiata gozzaniana

di Marina Rota

Quando al tramonto – ”l’ora antica torinese” – si avverte un po’ di malinconia per la fine del giorno e per l’ineluttabile fragilità delle cose, è quasi impossibile per una torinese a passeggio per certe vie non pensare al poeta legato a Torino da un intimo affetto, che lasciò traccia della sua presenza e della sua opera in tanti suoi luoghi e in una memoria comune che, anziché estinguersi, pare  ravvivarsi nel tempo.
Guido Gozzano, figlio dell’ingegner Fausto e della sua seconda moglie Diodata Mautino (nota in gioventù come “la piccola Duse del Canavese” per il suo notevole talento teatrale), vide la luce il 19 dicembre 1883 in via Bertolotti 2, come ricorda un’iscrizione posta sul palazzo, e venne battezzato coi nomi di Guido Davide Gustavo Riccardo nella parrocchia di Santa Barbara in via Assarotti.
Guido frequentò la scuola elementare Moncenisio in via della Cittadella 3: proprio la scuola in cui Edmondo De Amicis aveva ambientato qualche anno prima le vicende del libro Cuore. Il futuro poeta si rivelò un allievo piuttosto svogliato, di scarsissimo rendimento e molto più interessato alle monellerie che alle materie scolastiche, tanto da dover essere seguito privatamente da un’insegnante. Bocciato al Liceo Cavour, il giovane Guido venne spedito dalla famiglia al Real Ginnasio di Chivasso, dove consolidò il rapporto con quell’Ettore Colla, futuro notaio, che diventerà il suo amico per la pelle nonché compagno di “bricuncellate” (come scriveva lo stesso Guido) e quindi al Collegio Nazionale di Savigliano, dove finalmente riuscì a diplomarsi nello stesso anno in cui pubblicò la sua prima raccolta di poesie.
La sua vita di giovanotto si svolse in quella Torino di fine Ottocento che, dopo aver profondamente sofferto la perdita del suo ruolo di capitale del Regno d’Italia, si stava trasformando in città industriale ripopolata dal continuo afflusso dalle campagne ai nuovi quartieri operai.
Il periodo della sua gioventù – sorridente, ma anche pervasa dalla malinconica consapevolezza dello scorrere del tempo – fu quello della Torino intellettuale e goliardica celebrata dalla commedia di Oxilia e Camasio Addio, Giovinezza! (titolo tristemente premonitore per l’allegra brigata degli amici di Gozzano, morti con poche eccezioni in giovanissima età); e si svolse in un reticolo di strade abbastanza limitato.
In piazza Solferino il giovane Guido frequentava, come tutta la jeunesse dorée della Torino d’inizio Novecento, il caffè Molinari, e spesso si recava alla buvette della Carpano, a pochi metri da piazza Castello, dove il poeta fra l’altro ambientò una delle sue poesie più suggestive, Un rimorso.
Guido si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza ma, pur avendo sostenuto parecchi esami, non si laureò mai, benché nella sua opera poetica si autodefinisse talvolta “avvocato” (“e l’avvocato è qui, che pensa a te”…). Era assai più interessato alle feste danzanti del Circolo studentesco “Gaudeamus igitur” e alle “Sabatine”, cioè le conferenze letterarie che il professor Arturo Graf teneva di sabato all’Università e nella sede della rivista “La Donna”, frequentatissime da studenti e da eleganti signore, tutte un po’ innamorate dello charme del relatore in tight.
Nell’allora via delle Finanze, ora via Cesare Battisti, proprio a fianco di Palazzo Carignano, aveva sede la gloriosa Società della Cultura, fondata nel 1898, luogo di incontro di tutti gli intellettuali torinesi: Guido la frequentava assiduamente per trovare “un vero che non fosse quello religioso, dopo aver tanto studiato Nietzsche e Schopenhauer”. E, a contrasto con la sua immagine oleografica di giovane introverso in pince-nez, dall’aspetto aristocratico, e dal sorriso quasi forzato, era un vero capobanda. Secondo la testimonianza dell’amico giornalista Mario Bassi, Guido Gozzano divenne infatti capo di un’esuberante brigata di giovani letterati, che irrompeva nei locali frequentati da studiosi seri e ingessati e, come si direbbe adesso, “faceva casino”, disturbando i lettori con conversazioni a voce alta, schiamazzi, scherzi goliardici e risate.
Proprio nella sala riviste della Società della Cultura avvenne il primo incontro fra Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, femme fatale e già autrice di una raccolta poetica, un’icona nella Torino intellettuale di allora. Amalia, con la sua fama di donna sensuale e dominatrice, elegante negli abiti all’ultima moda di Parigi secondo lo schema liberty; incarnato pallido a contrasto con la massa di capelli neri, seminava non pochi turbamenti fra i frequentatori di quelle sale.
Poco tempo dopo fra i due poeti, che si scambiarono le loro opere, uscite ambedue nel 1907 (Le vergini folli e La via del rifugio) nascerà un rapporto sentimentale tanto chiacchierato e decorativo, quanto poco vissuto. Lei sensuale e appassionata, lui sensibile ma anche disincantato; lei desiderosa di un vero rapporto amoroso, lui incline a una sorta di fratellanza intellettuale con la “cara amica” a cui pur riconosceva fascino e bellezza; lei all’attacco, lui in difesa. La loro liaison era destinata a naufragare, trasformandosi in un’amicizia epistolare. Amalia insisteva per incontri diretti, ma dopo quello avvenuto al Meleto di Agliè, amatissimo refugium gozzaniano, in presenza della madre di Guido, rari furono i loro i incontri. E quando il poeta, dopo la diagnosi di lesione polmonare, modificò profondamente la sua visione esistenziale, aggiungendo al suo distacco sentimentale un pizzico di cinismo, anche Amalia, donna reale, venne assorbita, come tutte le sue sorelle poetiche (Felicita, Carlotta, Cocotte) nell’orbita delle “rose non colte”.
Ne soffrì molto, Amalia; e particolarmente struggente appare, nelle sue lettere, il ricordo di un appuntamento ai piedi della collina al quale Guido non si presentò e lei, avvilita,  passeggiò a lungo nel parco del Valentino, tormentando il suo mazzolino di fiori, in preda a cupi pensieri.
Proprio al Valentino si trovava uno dei divertimenti preferiti dai torinesi nei mesi invernali, la patinoire, creata su un laghetto prosciugato, dove il giovane poeta si divertiva a praticare, nuova moda del tempo, lo skettinaggio e dove ambientò  la sua bella poesia Invernale.
La famiglia Gozzano, dopo la morte del capofamiglia nel 1900 a causa di una polmonite, visse difficoltà finanziarie che la obbligarono a trasferirsi dalla bella casa di via Bertolotti in zone sempre meno centrali e in alloggi sempre piu angusti, per finire in via Cibrario. Proprio in questa via, al numero 65, una lapide commemora la morte del giovane poeta, col ricordo commosso della città  che aveva cantato con tanta affettuosa tenerezza.
Era un giorno d’agosto afoso, quando Guido Gozzano, a soli 33 anni, lasciò questo mondo. La città era in festa per la presa di Gorizia, e il morente, assistito dalla madre e confortato spiritualmente da un amico di gioventù (il bellissimo Mario Dogliotti divenuto frate), mormorò le sue ultime parole “Sono ben fortunato io! Muoio nel mio letto, mentre tanti giovani muoiono in trincea, lontani dalla casa e dalla mamma” (da Ricordo di Guido Gozzanodell’amica scrittrice e giornalista Carola Prosperi).
Ma non si può concludere più serenamente questa passeggiata se non entrando in un luogo assai caro al poeta, la Caffetteria Baratti&Milano, che pare essersi fermata nel tempo, da quando Guido scrisse a un suo tavolino Le golose, che il poeta ammirava con divertita tenerezza,  da osservatore di una realtà in cui non poteva e non voleva coinvolgersi troppo; rappresentandosi e mai dichiarandosi; essendoci, ma mai completamente, per la consapevolezza dell’incombere della “Signora vestita di nulla” che si stava avvicinando a grandi passi.
Usciti da Baratti in Piazza Castello, se si è fortunati, si può assistere a uno di quei tramonti incendiari che “Da Palazzo Madama al Valentino/ ardono l’Alpi fra le nubi accese:/ è questa l’ora antica torinese,/ è questa l’ora vera di Torino!”. Versi che suonano come un gesto estremo d’amore per Torino, “un po’ vecchiotta, provinciale, fresca/ tuttavia d’un tal garbo parigino”, una città-amante che fu cara al poeta come la fantesca che l’aveva veduto nascere; e come sua madre, che lo vide morire. 

 

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