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Vita da mattonaio – di Tamara Cucchiara

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La testimonianza di un mattonaio

di Tamara Cucchiara

Pianezza, maggio 2014.
La mostra Tèra da monvenne inaugurata a villa Lascaris, riscuotendo un notevole successo tra i pianezzesi e non. Tramite foto, didascalie informative, video e riproduzioni dei manufatti, i curatori della mostra riuscirono a illustrare eccellentemente la storia dei mattonai delle Fornaci e le opere dei ceramisti Giovanni Calvetti e Angelo Pusterla.
Ed è proprio camminando nel giardino della villa, osservando le varie opere, che emerse in me una viva curiosità. Mi resi conto che conoscere la cittadina in cui si è sempre vissuti, conoscerla con la “C” maiuscola, vuo dire cercare le radici della storia, le storie delle persone che calpestarono quella stessa terra che noi, indifferentemente, calpestiamo giornalmente.
Così contattai uno dei protagonisti del documentario dedicato ai mattonai, proiettato in loop durante la mostra. Qualche settimana dopo incontrai Romano Vignolini, che mi raccontò della sua adolescenza, di quegli anni trascorsi alle fornaci. Aneddoti e ricordi, che riviveva nella mente e negli occhi, e faceva immaginare ai miei, offrendomi un panorama molto diverso da tanti scritti sull’argomento.
Pianezza, maggio 1939.
Era passato un ventennio dalla fine della prima guerra mondiale quando i coniugi Vignolini si trasferirono definitivamente a Pianezza per andare a lavorare alle fornaci, prima presso quella di Garrone, per poi passare alla Ciocca. In quegli anni, numerose erano le famiglie che a maggio salutavano le loro terre toscane o friulane per immergersi totalmente nel faticoso lavoro del mattonaio, sulla riva sinistra del fiume Dora Riparia. Romano, ultimo di cinque figli, frequentava le scuole elementari quando correva a piedi nudi sull’aia che serviva da deposito per i mattoni. Pur risiedendo a Pianezza, “per non perdere tempo prezioso” la famiglia non dormiva nella propria casa, bensì a pochi metri dalla fornace, nel ciabotto. Il compito del piccolo Romano era quello di attingere con dei secchi l’acqua dal pozzo e trasportare la sabbia, sistemandola in uno spazio chiamato tarrone.
Il padre di Romano iniziava la sua attività alle cinque della mattina, dato che il lavoro andava iniziato “nelle ore fresche”. Le donne, al mattino prima di cominciare a lavorare portavano una pentola con quel poco che c’era da mangiare e la mettevano nella bocchetta del forno, così da avere qualcosa da mettere sotto i denti all’ora di pranzo e alla sera, dopo essersi lavati tutti insieme nella bealera che costeggiava le aie.
Si lavorava sette giorni su sette, terminando le giornate verso le dieci di sera, ma se c’era la luna si continuava fin dopo le undici a preparare tutto per il giorno seguente. Ogni sera, sotto il cielo stellato, veniva preparata la mota, ossia l’acqua mischiata alla terra, e la si lasciava riposare per l’intera notte. Il mattino seguente il padre di Romano, armato di zappa, tirava giù la terra da queste collinette di circa tre metri di altezza e iniziava a fare i mattoni.
A undici anni Romano imparò il lavoro della pulizia dei mattoni. Dopo che il mattone era stato messo nello stampo, gli si formava attorno uno “sfrido cimosa”, che Romano eliminava con un coltello (radino). Quando i mattoni erano finalmente asciutti, Romano li sistemava su un rialzo di terra denominato gambetta e li copriva con delle pagline, una copertura composta da legno e paglia, che serviva per proteggere i mattoni dall’acqua in caso di pioggia.
Ogni sera arrivava il direttore della fornace, che contava e annotava quanti mattoni ciascuna famiglia aveva prodotto. I mattonai erano pagati in base al numero di mattoni prodotti giornalmente, e la famiglia Vignolini ne riusciva a produrre mediamente 1800. Dopo averli contati, si caricavano su carrelli e li si metteva nel forno, chiamato cambrino.
Erano estati intense in cui non si portava con sé solo il peso del mattone prodotto. C’era un altro tipo di mattone che ci si portava addosso, quello della fame e della guerra che tutti, chi più, chi meno, vivevano sulla propria pelle. E la famiglia Romano l’ha vissuta pienamente. I due fratelli maggiori di Romano erano entrambi partigiani. Il maggiore fu catturato dai tedeschi e ucciso a soli ventidue anni a San Gillio; il giorno del suo funerale fu catturato anche il secondo e portato a Mauthausen. Nello stesso giorno quel che restava della famiglia Vignolini dovette cercare di sopportare il duplice dolore di aver perduto un figlio, e il terrore di non sapere dove fosse stato portato il secondo. Fortunatamente, al temine della guerra, fu rimpatriato dalla Croce Rossa Internazionale.
La tragedia non era presente solo nella guerra. Anche alla fornace ci furono momenti di disperazione quando a causa di una frana nella cava nella quale si estraeva la terra, un cugino della madre di Romano, fu sepolto, perdendo la vita.
La vita era dura ma il lavoro e la collaborazione tra le famiglie davano la forza di andare avanti. La forza, per alcuni, di arrivare fino ai giorni nostri per poterlo raccontare, e raccogliere la testimonianza di chi ha vissuto quegli anni è il modo più efficace per far conoscere la realtà e tenere viva memoria.

Questo articolo ha ricevuto una menzione all’ottava edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura e Turismo

 

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