Studio65, i Peter Pan dell’architettura
di Federico Carle
Fare architettura vuol dire costruire, ma non per lo Studio65 che ha fatto dell’”arte demolitoria” il suo cavallo di battaglia. Un collettivo di laureandi del Politecnico di Torino, fondato nel 1965 e capitanato da Franco Audrito; studenti che sarebbero diventati architetti, pittori, registi, fotografi… in una parola, artisti. Un gruppo di sperimentazione che ha sempre avuto un atteggiamento dissacratorio, ironico e iconoclasta rispetto all’establishment, motivo per il quale le istituzioni italiane per anni hanno fatto finta di dimenticarsi di loro, nonostante avessero opere esposte in tutto il mondo. Oggi una mostra a cura di Maria Cristina Didero, appena terminata alla Gam di Torino, gli ha reso giustizia celebrandone il mezzo secolo di vita: “Il mercante di nuvole. Studio65, cinquant’anni di futuro” che abbiamo visitato con l’architetto Adriano Vanara, collaboratore dello Studio fin dagli anni ’70. Ci ha fatto da cicerone raccontandoci la storia di un gruppo di Peter Pan che voleva costruire un mondo nuovo, senza ideologie, e un’isola che non c’è su cui rifugiarsi.
Cinquant’anni di Studio65 e altrettanti di Gufram. Nozze d’oro per un matrimonio che continua?
Già! La Gufram è un’azienda piemontese nata nel 1966, produttrice di sedute e complementi d’arredo che ha saputo innovarsi usando il poliuretano come materiale di stampaggio per i suoi prodotti. Per questo Franco Audrito nel 1970 la scelse per realizzare il progetto del divano Bocca diventato un po’ il nostro simbolo (in copertina del catalogo generale della mostra, ndr), oggetto pop per eccellenza. Da allora la collaborazione fra Studio65 e Gufram continua senza sosta. E per festeggiare il sodalizio è stato realizzato il divano Boccadoro: una riproposizione del Bocca in tessuto lamé, per celebrare le nozze d’oro e rendere omaggio a Hermann Hesse autore di Narciso e Boccadoro in cui si afferma che la “conoscenza del mondo avviene anche attraverso il cuore, e non soltanto attraverso la ragione”.
Ma qual è la storia di questo divano tanto famoso da essere nella collezione permanente del MoMa di New York? C’entra Dalì, non è così?
Sì e no. Franco Audrito aveva ricevuto un’importante commessa per un centro benessere a Milano, il Contourella. Era appena diventato architetto e con la moglie Nanà e alcuni amici nel suo studio in corso Moncalieri a Torino cercava idee per non sfigurare di fronte alla prima importante occasione della sua carriera. Aveva disegnato tutto, dalle pareti ai pavimenti. Mancava però, nella hall d’ingresso del centro che era stato chiamato “Tempio della bellezza”, un simbolo che fosse sintesi e metafora di tutto il gioco. L’idea allora fu di Nanà che si ricordò di un quadro surrealista visto in Grecia (sua terra natia, ndr): era il ritratto di Mae West di Salvator Dalì in cui il volto della diva era rappresentato dagli oggetti di un’ipotetica stanza: gli occhi come quadri appesi, il naso come una credenza e la bocca come un divano a forma di labbra. Quella fu l’intuizione: non una copia, piuttosto un’ispirazione. Successe poi che l’oggetto venne fotografato e diffuso su qualche rivista, ma per errore il giornalista attribuii l’opera a Salvator Dalì. La notizia arrivo alle sue orecchie e ci scrisse una lettera in cui chiedeva spiegazioni. Prontamente gli rispondemmo chiedendogli scusa per il disguido, impegnandoci a porre rimedio con la notizia corretta. La cosa termino lì, Dalì fu un vero signore. Quel divano lo chiamammo Marilyn in onore alle labbra carnose della diva pop di Hollywood per eccellenza; quindi non un oggetto surrealista, ma di consumo. Qui sta tutta la nostra poetica: progettiamo oggetti che “parlano” e non solo che servono, in cui il significante è più importante del significato stesso.
E la lettera di Dalì? L’avete conservata?
Il nostro avvocato la volle a tutti i costi per sé, al posto del pagamento della parcella. Tuttavia pare che oggi sia andata dispersa, ahimé.
Architetto Vanara, qual è invece il progetto dello Studio65 al quale si sente maggiormente legato?
Beh, la seduta Capitello indubbiamente. I nostri sono tutti lavori collettivi, ma in questo sento l’idea come maggiormente mia. Ero nel retrobottega del bar dei genitori della mia ragazza dell’epoca. Erano i primi anni ’70 e con un amico dovevamo farci venire in mente delle proposte da presentare il giorno dopo per un concorso a cui lo Studio aveva deciso di partecipare… buio totale! Poi d’improvviso mi ricordai della frase dell’architetto Adolf Loss: “La grande colonna verrà costruita, se non da noi, ma verrà costruita”. Presi un foglio a quadretti come quello che hai lì (indica il block notes, ndr), e feci questo schizzo: una colonna tagliata obliquamente con un capitello dorico – il più maturo – e le volute che sinuose si univano alle scanalature. Era una seduta perfetta, e un simbolo. Era questo che cercavamo, dei simboli che non fossero da firmare col nostro marchio perché immediatamente riconoscibili. La Gufram la realizzò, come sempre, in poliuretano. Bianca, semplice e bellissima.
E quello era proprio il periodo della semplicità, ma anche della complicazione; dell’ordine e della contestazione, giusto?
Sì, eccome. Erano anni movimentati. Da un lato l’Arte povera di Piero Gilardi, o l’architettura radicale del gruppo Strum – molti come noi sotto l’ala della Gufram – semplice, pulita, ma forte e provocatoria. Dall’altro la Transavanguardia, ricca e esagerata quasi. Da un lato, ancora, John Cage e il suo 4’33’’ di silenzio assoluto, suonato per non essere suonato. Dall’altro il rock e il jazz; i Beatles e i Rolling Stones. La scanzonata generazione letteraria del Gruppo ’63 con Nanni Balestrini ed Edoardo Sanguineti in Italia, e l’irriverenza del Living Theatre newyorkese che prendeva le mosse dal Dadaismo di Marcel Duchamp. C’era la Pop art di Andy Warhol, il cattolicesimo kennediano rassicurante che nascondeva dietro di sé la guerra, la contestazione e le lotte operaie. Anni di protesta universitaria ma anche anni in cui all’università potevano insegnare dei geni assoluti fuori dal coro come Carlo Mollino (autore, fra i tanti, dei progetti per il Teatro Regio e l’Auditorium Rai di Torino, ndr). Era lui che ci diceva sempre che per fare gli architetti bisognava essere ricchi e con molto tempo da perdere. Ci definiva i primi “architetti plebei” della storia, perché non volevamo arricchirci col denaro, ma con le emozioni. E lo dico con orgoglio: lo Studio65 non ha mai progettato un condominio, vera tomba delle emozioni perché fonte di litigi futili, di frustrazioni e sopraffazioni.
Insomma erano anni di paradossi, come è paradossale “Il mercante di nuvole”…
Infatti. Attraverso il paradosso si espongono storie vere, criticando la società, denunciandola. Così nella Stanza della guerra ci si può nuovamente indignare di fronte agli orrori del conflitto in Vietnam, per esempio, sentendo i pianti dei bambini e dei civili ma anche l’inutilità di tutti i conflitti, con quel valzer del Gattopardo suonato in coda ai filmati per dire che “Tutto cambia, affinché nulla cambi”. Perché la Storia a volte non è maestra di niente. Oppure nella Stanza del mercante di nuvole ci si può sdraiare su dei cuscini-nuvola poggiati su un tappeto di cielo e tornare a far volare i propri sogni. Lo scopo è di ritrovare il bambino che c’è in noi: la nuvola è un paradosso, nessuno ha mai pensato di commercializzarla, dato che non porta profitto. Ma noi sì, perché rappresenta tutte le cose della vita che non sono quantificabili in denaro ma contano: i desideri, le emozioni, i sentimenti… La realtà vera è nei sogni, per quella vale la pena lottare e non per la finzione che c’è fuori dalla porta fatta di tranelli e sciocchezze. “Abbiate il coraggio di sognare, come dei bambini che non scendono a compromessi, sempre coerenti ai loro ideali”, ripete spesso Franco Audrito.
E la coerenza alla fine paga, giusto?
Certo (ride, ndr), dopo cinquant’anni… ma paga! C’è voluto tanto per farci riconoscere nella nostra terra, questa è stata la prima mostra importante a Torino, mentre da anni abbiamo opere stabilmente al MoMa, al Vitra Design Museum in Germania al Pompidou di Parigi, alla Triennale di Milano, in Asia…
Ma qual è l’eredità dello Studio65?
Un modus operandi. Abbiamo attinto a tutte le avanguardie storiche (Dadaismo, Surrealismo, Futurismo…) e siamo stati noi stessi un’avanguardia. Volevamo cambiare il mondo, e in parte il mondo ha cambiato noi, certamente, come tutti i movimenti rivoluzionari. Ma non abbiamo fallito, perché il seme del futuro è stato piantato. Un segno? Avete visto come giocano felici i bambini con gli adulti sui nostri multipli d’arte (coi pezzi del Baby-lonia, sulla poltrona gigante Mickey dei sogni, con la Colonna sonora…), chi è il “grande” e chi il “piccolo” lì? Beh, tutti siamo tutto. L’arte è vita; è un gioco – serissimo – che va toccato con mano. Per progettare il futuro bisogna ricordarsi del passato, di quel passato in cui eravamo giovani spensierati e pieni di sogni… proprio come oggi, o no?
Articolo pubblicato su Piemonte Mese, marzo 2016