Il Parkour dalla banlieue a James Bond. Ivan “Vania” Nikodimovich e i suoi traceurs
intervista di Nico Ivaldi
Periferia di Torino. Qualche anno fa, forse dieci. L’attenzione di una pattuglia di poliziotti in perlustrazione viene
“Così quando ci chiedevano: Hai dietro i documenti? Ci giravamo e li mostravamo. La cosa buffa è che a furia di vedere i nostri allenamenti, alcuni di quegli stessi agenti si sono appassionati al parkour e sono venuti a prepararsi con noi”.
A parlare è Ivan Nikodimovich, trentadue anni, il ragazzo che ha avuto la bella pensata delle t-shirt ed è considerato il pioniere del parkour a Torino. Insegna ai futuri traceurs (tracciatori, così si chiamano coloro che praticano il parkour) della Asd Parkour Torino nella palestra del Parco Le Serre di Grugliasco. Qui Ivan – fisico prestante, capelli legati con la coda – è conosciuto da tutti come Vanja, vezzeggiativo del suo nome.
Spiega Ivan: “Dopo il passaparola è stata la rete il principale mezzo di diffusione del parkour, grazie ai numerosi video caricati su youtube. Attualmente il parkour vive una svolta commerciale in cui le sue tecniche vengono utilizzate in diversi film, pubblicità, e video musicali. Lo stesso David Belle è stato consacrato come attore nel film Banlieue 13, prodotto da Luc Besson, mentre molti ricorderanno il ruolo del terrorista Mollaka nel film di James Bond Casino Royale interpretato da Sèbastien Foucan, inventore del free runner, il parkour inglese”.
“Tutt’altro! Ai ragazzi che si allenavano con noi insegnavo il rispetto della proprietà altrui, dicevo sempre che non si doveva rovinare nulla. Per noi i muretti sono strumenti di lavoro. Alle volte dovevamo addirittura ripulirli dai vetri, e quindi facevamo pure un’attività sociale. All’inizio eravamo davvero quattro gatti, che non sapevano ancora bene che cosa fare. Ognuno di noi portava in dote la propria esperienza sportiva e il proprio bagaglio tecnico. Poi dopo pochi giorni che avevamo cominciato a trovarci, siamo andati a un meeting internazionale di parkour a Milano con David Belle e il suo team, che poi ho seguito a Berlino, dove ho avuto la possibilità di imparare moltissimo. E da lì è iniziato tutto”.
Dove vi allenavate a Torino?
“I primi tempi in piazza Valdo Fusi, poi in una parte coperta del Lingotto, che ora è abbandonata”.
Prima di diventare uno dei traceurs,Ivan, lontane origini montenegrine, praticava acrobatica, dopo esseri cimentato nella velocità, nel salto in lungo, nel calcio, nel nuoto, nel karate e perfino nella danza e nel ballo sportivo. Basta così?
“Sì, ora mi sono fermato al parkour. Alla mia età ho capito che devo dedicarmi soltanto al parkour, che di per sé è una pratica sportiva completa”.
Perché non lo chiami sport?
“Perché non è ancora codificato come tale. Una volta che codifichi i movimenti inizi a costringere le persone in un determinato modo, mentre parkour è un inno alla libertà di movimento. Io stesso fatico ancora a definirmi un insegnante”.
Qual è esattamente la filosofia del parkour?
“Creare un percorso senza bloccarsi nelle strade imposte da altri, è un modo di vedere la vita. Tutto diviene un ostacolo, ma è l’ostacolo stesso a svelare l’altra sua faccia, trasformandosi nell’opportunità di superarlo“.
“Assolutamente no. Forse molti sono ancora legati ai primi video che hanno cominciato a circolare, dove si vedevano giovani cimentarsi con percorsi cittadini, dalle tettoie ai mancorrenti, dai muretti alle scale antincendio, ringhiere, palazzi di qualche piano, soprattutto a Parigi e in altre grandi città. Ma il parkour sfrutta qualsiasi spazio”.
Oggi è praticato da giovanissimi, l’età è sempre più bassa.
“Quando ho cominciato, l’età media era sui ventitré, ventiquattro anni, oggi i praticanti sono molti più giovani, meno di diciotto anni”.
Non tutti indossano la “divisa” dei loro colleghi transalpini: scarpe da runner e pantaloni larghi, felpe col cappuccio e giubbotti senza maniche. Si vedono anche jeans e camicioni a quadretti, con l’immancabile berretto da baseball.
“È ancora troppo presto per saperlo, vedremo nel tempo che effetti faranno i microtraumi. La nostra è un’attività fisica usurante come tutte: facciamo salti, scatti repentini, scatti dall’alto e sfruttiamo tutto il corpo, e poi atterriamo sul cemento in città ed è ancora più traumatico. Comunque sono pochissimi i casi di gente che si è fatta molto male ”.
Dentro la palestra nel parco Le Serre, i giovanissimi traceurs si allenano saltando ostacoli e facendo capriole, planando sui materassini di gomma, in attesa di atterraggi più duri. Ma i genitori, sottolinea Ivan, non sono preoccupati, o comunque non più di quanto lo sarebbero se i loro figli praticassero calcio o basket.
E tu sei sempre in forma?
“A parte un problema di cartilagine, per cui mi dovrò operare al ginocchio, il resto è tutto a posto. Mi aspettano ancora molti anni di parkour”.