Storia di un’accoglienza targata Cuneo
di Debora Schellino
Naviante è un piccolo borgo a destra della provinciale che da Cherasco porta a Mondovì. È in una strada senza uscita e può essere notato solo da chi lo cerca, attraversando il ponte sul Tanaro. Fino al 1912 era isolato dal comune di Farigliano, che da qui poteva essere raggiunto solo in barca. Forse per questo motivo è sempre bastato a se stesso: è cresciuto lungo le rive del fiume e ne ha seguito il corso nel bene e nel male, pagando anche i suoi conti nella grande alluvione del ’94. Negli anni Sessanta era una terra di contadini ai piedi delle “malorose” Langhe: dai banchi in fòrmica della scuola, rimasta aperta fino al ’72, qualcuno cominciava a passare al Liceo e poi all’Università di Torino, indirizzo Lettere.
Domenico Milano studiava e nei fine settimana tornava a casa, condividendo con gli amici di sempre i libri di Don Milani: qualcuno metteva l’aglio appena cavato, qualcuno sfornava il pane e lui portava i libri. Lettera ad una professoressa conserva ancora le macchie di olio di quella sera che mentre MiNi leggeva, si era mangiata la bagna caoda nella stalla. Nella primavera un signore si era ammalato e tutti gli uomini erano andati a potargli la vigna: c’era il senso di mutuo soccorso di chi è povero, non ha e comunque dà, ma ci sarebbe stato molto di più.
La storia di Domenico, Stella, Mariarosa, Riccardo, Lucia, Beppe, Luca si intreccia con quella di una terra lontana, il dolcetto si incontra con il mate, il liscio con il chacarera.
Nel novembre del ‘77 Domenico è con la moglie Stella, e gli viene chiesto un luogo in cui ospitare sette esuli argentini in fuga dalla dittatura. Lo supplica una madre scappata con due figli: il più piccolo ha quattro anni e per poter salvare i familiari ha detto, senza esitazione, durante un interrogatorio, di chiamarsi con un nome falso.
I rifugiati vengono accolti in una piccola casa vacanze, ma in breve da sette diventano ventitre: “Per Natale sono arrivati tutti”, racconta oggi Stella. Ci vuole un locale più spazioso e i naviantini mettono a disposizione la vecchia scuola dai muri scrostati.
La vicenda diventa presto una storia di dolore e di aiuto, senza colore: anche l’allora sindaco candidato per la Democrazia Cristiana dà il suo assenso a un progetto di accoglienza in parte finanziato dal Pci. L’Italia degli anni Settanta è quella del terrorismo, dell’attentato Moro, ma qui la politica ha i piedi per terra, il resto è poco più di un manifesto sulla bacheca di Piazza dei Caduti.
Un sindaco democristiano e un “compagno” chiedono aiuto al vescovo per questi giovani e ricevono un contributo di un milione e duecentomila lire. Il parroco tiene comunque a benedire i locali della scuola: lo fa sul poster di Ho Chi Minh, e Stella a pensarci sorride ancora. Un fabbro dona i letti a castello, una ditta locale procura le assi per i letti; chi ne ha in più dona materassi, lenzuola, un cappotto. Cesti di patate, frutta e frattaglie sono lasciati di nascosto fuori dalle aule.
I ragazzi sono arrivati con indumenti estivi in un inverno da sché, seccare, come dicono qui. “Li abbiamo aiutati senza sapere chi fossero”: infatti avevano nomi falsi perché sotto protezione, e anche fra di loro non si conoscevano. Conoscevano la vera identità di una sola persona in modo che, se catturati, nonsi potesse arrivare agli altri. “Non conoscevamo il loro passato, per noi esisteva Mati, non Norma, Cacho e non Jorge. Eppure sono stati una parte della nostra vita”, dice Stella.
Anche i bambini sono accolti all’asilo con nomi fittizi e aiutati. Il sindaco di Farigliano fa lavorare gli uomini ai campi sportivi perché guadagnino qualcosa, qualcuno ha donato un pezzo di terra per fare l’orto, altri hanno offerto un lavoro nella raccolta delle nocciole.
Mariano, che in realtà è Rodolfo, ha imparato a coltivare la vigna: oggi nel cortile della sua villa di Buenos Aires ha ancora una pianta di vite. Luisa era la bellissima mamma di Antonino: fa la coreografa in Svizzera e torna in Argentina soltanto per i tour dei suoi spettacoli. “C’era Ruben, un grande chitarrista, che suonava sempre quella canzone che fa ’La la la la la’…”, racconta Stella con l’aria di chi la sente ancora.
Anna, la maggiore delle bambine, ha rimosso ogni cosa di quel periodo, come nel più classico dei disturbi post-traumatici. A distanza di anni ha sofferto di depressione ed è andata a “cercarsi” a Naviante: Domenico l’ha accompagnata tra i suoi fantasmi, a scuola e nella sua casa. Maria era stata torturata con scosse elettriche in vagina: curata all’ospedale Sant’Anna di Torino, oggi è una graziosa signora. Mati è tornata a vivere a Cuneo e ancora adesso si ricorda la prima espressione imparata in Italia:“Sara sa porta!” (chiudi questa porta!) le gridavano, per evitare che si ammalasse.
In paese precisano: “Non abbiamo fatto la carità, non siamo eroi, siamo persone che ogni tanto in quel periodo si sono anche arrabbiate!”. Come quella volta che al mercato li hanno visti comprare i peperoni a dicembre: una primizia, un lusso che neppure i naviantini si erano mai permessi. O quel giorno che al bar avevano ordinato un cognac e MiNi ha spiegato che non ci si poteva far vedere alla caffetteria del paese prendendo qualcosa di più di un caffè. Poi il pettegolezzo nato su queste donne d’oltreoceano che sentivano il bisogno di una pulizia del viso o una ceretta, che alla porta della Langa di allora non sembravano immaginabili.
In Piemonte è nato Nicolas, ricorda ancora la signora Milano: “Domenico ha portato Mati a partorire a Torino, se l’è caricata in macchina una notte e l’ha portata via. Lei voleva assolutamente tenere quel bambino e ancora oggi è l’unico figlio che ha. È venuto al mondo con documenti falsi e sotto copertura. Coco lavorava da Riccardo, ma lui non sapeva da dove arrivasse. Ernesto veniva la domenica a mangiare con noi ma io non so niente di lui. Sapevamo che Juan veniva dagli Altipiani perché aveva il mal di chagas, provocato da un insetto, e si capiva che era un contadino perché sapeva spaccare la legna”. Una volta l’anno si mangiavano tutti insieme i tajarin e l’asado, carne cotta secondo la tradizione argentina.
Circa tre anni dopo sono ripartiti, così come erano arrivati, uno per volta, quando potevano. Cacho oggi è un commercialista insieme alla moglie, Coco e Ani hanno un negozio a Buenos Aires che si chiama “Paesi tuoi”, come il giornale che Domenico Milano aveva fondato a Carrù nell’aprile del ’76 e che in occasione dei Mondiali argentini aveva parlato della dittatura.
“Alla fine conta quello che di umano è rimasto di questa storia, senza volerci mettere il cappello, senza che sia stata di destra o di sinistra”, conclude Stella. E conta la sua voce rotta dalle lacrime mentre lo dice, conta il braccialetto d’argento che Laura, Maria Seoane, porta ancora oggi in ricordo di quando fu accompagnata alla stazione di Mondovì per ripartire. Conta l’emozione di Luca, che all’epoca aveva quattro anni e vive ancora a Farigliano, che li ha raggiunti in Argentina e per prima cosa è stato invitato sul Rio della Plata, perché vedesse che cos’è stato Naviante per le loro vite. Conta il “Non olvidamos la solidaridad, la ayuda, la humanidad y el afecto” (Non dimentichiamo la solidarietà, l’aiuto, l’umanità, l’affetto) firmato “Los argentinos” che oggi si legge ai muri del Circolo Arci, nato nella Scuola. Conta il filo dell’empatia che si è tirato tra i cuori, conta che, quella musica italo-argentina non si sia mai spenta, che gli occhi non si siano chiusi su quei Capodanni tutti insieme a Naviante con la neve che arrivava alle finestre.
Questo articolo ha ricevuto una menzione d’onore alla IX edizione del Premio Piemonte Mese, sezione Cultura