Remigio Bertolino, rabdomante di storie
di Federico Carle
Bertolino è un poeta dialettale, uno dei più importanti d’Italia. Scrive nella parlata di Montaldo Mondovì, dov’è nato, anche se oggi vive nella suggestiva via delle Cappelle, che porta a Vicoforte. Ha sessantott’anni e dopo aver insegnato a lungo alle scuole elementari oggi si gode la pensione e scrive di quel “mondo di voci e di silenzi che non c’è più”, delle storie della gente che ha conosciuto nella sua infanzia:“Un universo di saggi e di vinti che vivevano con sforzi enormi, con grandi fatiche e che tuttavia mostravano serenità; persone che seguivano il ritmo delle stagioni senza affanni”. Gente che ha lasciato una scia di luce, e che lui chiama i lümìn, le lucciole.
Ci accoglie a casa sua e percorrere via delle Cappelle sembra di salire in un altrove mistico, verso il luogo della poesia che non ha tempo né spazio, come un paradiso:“Il progetto iniziale delle cappelle, racconta, è del Seicento, ma queste che vediamo sono dell’Ottocento. Avrebbero dovuto essere quattordici, dedicate al rosario, ma solo cinque vennero costruite”.
Il mare d’inverno – cioè di neve – prima di tutto: “Mar dla fiòca,/ ënco fiòca/ sensa fin… (Mare di neve,/ ancora neve/ senza fine…)”, metafora che Bertolino fa propria, forse perché il Monregalese è terra di confine per antonomasia tra Langhe, montagna e Liguria. Via di transito in cui qualcosa al mare va sempre (come la neve in primavera) e altro ritorna. Perché dal mare arriva il Marìn, “il vento umido che a febbraio scioglie la neve, e fa apparire i primi bucaneve come un miracolo”.
Però Mare, in dialetto, vuol dire anche “madre”. Quella che il poeta perse quando era adolescente: “È morta d’infarto nella neve quando ero piccolo; era venuta a piedi da Montaldo a Mondovì, per parlare coi professori. Andavo bene, sarà morta felice almeno…”, dice con un sorriso di nostalgia. Quella madre assente che la poesia ha cercato di colmare. Una presenza femminile che salva: la natura, l’acqua, la luce, la neve, la parola… “Për la poesia/ e j’orfanej/ la fiòca a l’eva/ na bon-a mare (Per la poesia/ e gli orfani/ la neve era/ una buona madre)”.
Alto, magrissimo, essenziale: Remigio Bertolino è come la sua poesia, come quelle storie che non ammettono svolazzi retorici perché è il dialetto di Montaldo a essere così: “Vicino alle vicende che volevo descrivere; una parlata più dura, per esempio, rispetto alla koinè torinese e per questo più vera”.
La sua ultima raccolta poetica, Litre d’ënvern (Lettere d’inverno), uscita per Aragno nella collana di poesia diretta da Giovanni Tesio, un’intera sezione è dedicata alla Guerra del sale: “Tesio dice che le mie sono ‘parole di legno’ perché dure, semplici, ma vive. Come il legno che ha calore, venature e si adatta ai tempi pur rimanendo nella propria compattezza”.
Ma cos’è la poesia per Remigio Bertolino? “Uno strumento archeologico quasi, uno scavo alla ricerca delle nostre radici attraverso la lingua. È come strofinare le vecchie pentole di rame che una volta pulite rilucono di nuovo, riverberano di luce. Perché un altro elemento importante per me è proprio la luce e il fuoco”. E se alcuni le dicessero che la sua poesia è totalmente anacronistica perché rappresenta una sorta di Spoon River di un mondo ormai morto, cosa risponderebbe? “La mia non è una poesia crepuscolare, ma zenitale. Queste vite sono rappresentate nel massimo del loro acume, come se impressionassi una lastra fotografica nell’istante di maggiore luce, sono degli Sbaluch (Bagliori), per citare un’altra mia raccolta. Vite misere, ma splendide e splendenti. Vite viventi e non morenti. Perché se la poesia è sogno, come diceva Calderon de la Barca, e se ciascuno cresce solo se sognato, come sosteneva Danilo Dolci, sognare queste vite e depositarle sul foglio le fa continuamente vivere, attraverso di noi. Per ricordarci chi siamo stati e dove andiamo”.
Ma la poesia è rimedio, salva? “Aiuta!”. E se lo dice uno come lui che ha ottenuto premi importanti, ci si deve credere. Per citarne alcuni il “Pascoli” e il “Lerici Pea”, intitolato alla memoria dell’amico Paolo Bertolani, che da ligure, quasi come un controcanto ideale, scrisse Raità de neve (Rarità della neve). Inoltre Bertolino, da vicepresidente dell’associazione culturale Gli Spigolatori, ha fatto venire a Mondovì, tra gli altri, niente meno che un premio Nobel: “Sì, Nadine Gordimer, Nobel per la Letteratura, ha presentato qui un suo racconto inedito; aveva una figlia residente qui vicino, a Briglia, e quando l’abbiamo scoperto non ci siamo fatti scappare l’occasione”.
Insomma, se qualcuno avesse pensato di trovare un eremita o un asceta isolato nell’incontrare Bertolino si sarebbe sbagliato. È piuttosto uno stilita, un’antenna che capta messaggi; un rabdomante di storie. Ed è bella l’immagine di una sua poesia intitolata “Il Profeta”, in cui il contadino d’inizio Novecento “Cin” s’inginocchia e prega ogni volta che deve falciare l’erba, nel rispetto massimo del Creato: “It ciam përdon/ se la rosà dë staneucc/ a treuvrà pì ël taragnà/ da pende soe stèile. (Ti chiedo perdono/ se la rugiada di stanotte/ non troverà più ragnatele/ per appendere le sue stelle.)”.
Bello perché è giusto non dare sempre tutto per scontato, e la poesia di Bertolino in questo aiuta. Per alzare lo sguardo e cambiare almeno il punto di vista, per mettere a fuoco. Perché inaspettatamente a volte anche una periferia può farsi centro, come la montagna può diventare mare.