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Generoso Urciuoli – Intervista di Nico Ivaldi

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Generoso Urciuoli, agitatore culturale fra archeologia e social
Intervista di Nico Ivaldi


Se domandate a Generoso Urciuoli – archeologo e ricercatore dell’Area Islamica per il MAO di Torino (Museo d’Arte Orientale) – la ricetta della pasta con le sarde, otterreste scena muta. Ma se provate con un dolce tipico babilonese o con un antipasto degli Ittiti, vi snocciolerà in dieci secondi tutte le dosi e le fasi della preparazione del piatto.
Scherzosi paradossi a parte (fino a un certo punto, però: è vero che non sono capace di cucinare, ma adoro mangiare e soprattutto bere bene, puntualizza), oggi “l’archeologia della cucina” è l’ultimo appassionante campo investigativo nel quale si sia cimentato questo quarantottenne intellettuale dinamico e conversatore piacevole, originario di Mirabella Eclano, provincia di Avellino.
ivaldi-generoso1Dai suoi recenti studi sono nati alcuni libri, l’ultimo dei quali, dedicato al menù dell’Ultima Cena, in collaborazione con l’amica archeologa Marta Berogno (Gerusalemme: l’Ultima Cena, Ananke editore), ha suscitato curiosità in tutto il mondo. Ma ne parleremo nel corso di questa intervista.
Sono sempre stato una persona molto frenetica, intellettualmente parlando” spiega Urciuoli. “Dopo la laurea in Civiltà Bizantina, ho seguito corsi e master che mi permettessero di occuparmi di scavi archeologici terrestri e sommersi (ho oltre tremila immersioni all’attivo). Ho lavorato nel campo della ricerca, nella conservazione di beni culturali e nella documentazione di reperti e siti archeologici. Nel tempo libero leggo testi di filosofia, mi aiutano a rilassarmi”.
Oggi che la tua principale attività si svolge all’interno di un museo, non ti manca il lavoro degli scavi?
Di sicuro non mi manca il fatto di stare inginocchiato per ore e ore: fare l’archeologo è un lavoro molto usurante. Piuttosto dello scavo mi manca il contatto con la terra, che considero una forma di meditazione (comunque devi essere concentrato sul tuo pezzo di terra) anche se un po’ particolare. E poi mi manca la soddisfazione di poter mettere in luce oggetti rimasti nascosti per millenni”.
Qualche risultato che hai ottenuto?
Ricordo una campagna di scavo appena fuori Roma, tra i pascoli e gli uliveti che si trovano fra l’Aurelia e la via di Boccea, Qui, circa mezzo milione di anni fa, scorreva un fiume, sostituito poi da un’area paludosa: una vera e propria trappola per quei giganti che raggiungevano i 4 metri di altezza alla spalla. Il fango che li imprigionò e li uccise ha però anche preservato i loro resti, facendoli arrivare fino a noi”.
Non ti sarebbe piaciuto fare il docente?
No, intanto perché non ho mai ambito a fare quel tipo di carriera. E poi perché i docenti sono quasi tutti dogmatici che vogliono mantenere il proprio sapere senza dividerlo con nessuno. Io parto dal presupposto che le scienze devono comportarsi come tali, e dunque il punto di arrivo di un ricercatore è il punto di inizio di un altro. Per certi baroni guai a toccare il loro orticello…”
C’è speranza nei giovani ricercatori?
Ci sarebbe, ma il problema è che hanno poco coraggio, non osano. Se la tua vocazione è raccontare in maniera seria non è necessario diventare docente, puoi utilizzare molti mezzi per divulgare le tue scoperte.
Lo dice uno che sui social sembra esserci nato. I post di Generoso Urciuoli sono continue provocazioni, intelligenti punzecchiature, osservazioni mai banali, talvolta spiritose, quasi sempre su temi di attualità. Sei sempre l’”agitatore culturale”, come ti definisti durante una trasmissione radiofonica?
Ho sempre considerato la pluridisciplinarietà come un valore aggiunto, spiega Urciuoli, nel senso che ho sempre cercato di formarmi attingendo a più campi. Messe tutte insieme, le mie specializzazioni mi hanno permesso di creare questa sorta di agitatore culturale, cioè di uno che stimola ma poi sposta l’attenzione da un’altra parte”.
Ritorniamo all’”archeologia della cucina”. Generoso, perché questo interesse per il cibo?
Perché il cibo dal mio punto di vista è anche un elemento archeologico. Per anni ho fatto l’archeologo da cantiere, confrontandomi principalmente con la stratigrafia e ho provato a trasmettere le stesse dinamiche alla mia ricerca sul cibo. L’archeologia stratigrafica individua i rapporti tra gli strati e definisce la loro relazione. Anche l’alimento è come uno strato: da solo è poco indicativo ma diventa affascinante se contestualizzato, non solo dal punto di vista delle coordinate cronologiche ma anche di quelle geografiche. Inoltre l’alimento si trova al centro di
un processo complesso che si realizza con molteplici azioni: dalla manipolazione iniziale alla conservazione, allo stoccaggio, al trasporto, alla trasformazione, al consumo e infine allo smercio. Un ciclo avvincente”.

Ma l’indagine di Urciuoli – il cui seguitissimo blog, Archeoricette, ricostruisce le abitudini alimentari delle antiche civiltà dimostrando l’esistenza di un’arte culinaria fin dalla notte dei tempi – è andata ben oltre.
Ho spostato l’obiettivo sull’arte gastronomica, ovvero su tutta quelle serie di azioni non più finalizzate alla sopravvivenza, ma alla ricerca del gusto. Siamo sicuri che le classi dirigenti sumere, babilonesi, greche mangiassero soltanto per sopravvivere o piuttosto non andassero a cercare i gusti e i sapori provenienti da altri luoghi e paesi? E siamo altrettanto sicuri che il cibo diventò elemento di distinzione sociale soltanto a partire dal Rinascimento?”
Già nell’antichità, sostiene l’archeologo torinese, esistevano trattati gastronomici.
Il primo è addirittura del 1750 a.C! Si tratta di tavolette scritte in cuneiforme arcadico (ora si trovano alla Yale University) e sono una quarantina di ricette, con una loro sintassi simile a quella delle ricette odierne. Su una tavoletta d’argilla risalente al 3000 a. C. e ritrovata a Uruk c’era questa iscrizione: ‘Disporre amsikurak in un paiolo con un po’ di latte. Far cuocere a fiamma dolce. Quando gli amsikurak sono cotti, unirli a menta e latte e preparare una salsina. Colare la salsa così ottenuta sopra i kippu e rimettere tutto nel paiolo un altro po’ a cuocere. A cottura ultimata servire con un po’ di latte freddo! Non è forse paragonabile a una ricetta moderna?”
(Per la cronaca, amsikurak è il cammello, mentre il kippu era un volatile).
Tra le tante ricette che hai ricostruito grazie all’archeologia, ce n’è una che ha molte attinenze con un cibo che mangiamo ancora oggi?
Quando mangio una semplice piadina romagnola, non riesco a non pensare al pane non lievitato cotto su una pietra, come facevano gli Iittiti. È la stessa cosa”.
E della cucina romana cosa ci racconti?
Potrebbe sembrare strano, ma la cucina romana è molto lontana dal nostro gusto attuale. Quella dell’epoca soprattutto imperiale, al netto della famosa triade mediterranea che ancora ci accomuna, era una cucina particolarmente ricca, pasticciata, caratterizzata da un gusto agrodolce e il tutto coperto dal garum, la famosa salsa che i Romani amavano mettere ovunque, realizzata con le interiora di pesci”.
Si dice da sempre che in Egitto la dieta fosse costituita principalmente da pane e birra, e su questo postulato gli storici sono andati avanti da decenni. Tu hai scoperto qualcosa di nuovo?
Ho scoperto che la loro tavolozza alimentare era molto ampia. Sempre con Marta Berogno abbiamo scritto Piramidi e pentole, in cui abbiamo analizzato (è stato un lavoro lunghissimo) i geroglifici afferenti al mondo del cibo. Abbiamo trovato molti tipi di pane, diverse qualità di birra, dei preparati, tipo la farinata – che non è quella di ceci, ma è fatta con farine di cereali – o certi dolcetti al cipero di forma triangolare, tipo una radice di papiro dolciastra”.
Esiste un cibo “antico” che potrebbe diventare utilizzato nel futuro?
È una domanda difficile. Sono sempre in difficoltà, soprattutto quando qualcuno parla di cibo del futuro, perché se si analizza l’elenco degli alimenti del futuro ci si rende immediatamente conto, almeno per me grazie agli studi, che è cibo tutto ciò che rientrava nella tavolozza alimentare delle antiche civiltà. Penso ad esempio all’alga spirulina, energetica, altamente nutreica. Gli Atzechi facevano dei biscotti o delle torte con la farina di spirulina. O tutto il discorso degli insetti. Il povero Giovanni Battista, di cosa si nutriva? Di cavallette e miele selvatico. Per non parlare dei roditori, alimento di cui i babilonesi erano ghiottissimi ma economicamente cari”.
Veniamo all’Ultima Cena, forse la più famosa della storia: in cosa è consistita la vostra ricerca, effettuata sul campo, a Gerusalemme, dove avete intervistato un famoso cuoco “biblico”, Moshe Basson, che nel suo ristorante propone due o tre versioni del menù?
Lo studio si è basato su versi della Bibbia, su scritti ebraici, su antiche opere romane e su risultati archeologici ricavati delle abitudini alimentari a Gerusalemme all’inizio del I secolo d.C. La Bibbia descrive cosa accadde durante quella cena, ma non dettaglia su cosa abbiano mangiato Gesù e i suoi dodici apostoli. Il punto di partenza è il fatto che Gesù era un ebreo e che dunque lui e i suoi discepoli avranno osservato le tradizioni trasmesse dalla Torah e le regole relative all’alimentazione”.
Secondo voi che cosa si mangiò in quell’occasione?
Molto probabilmente il cholent, uno stufato di legumi, cotti molto lentamente; l’agnello; olive con issopo, un’erba dal sapore simile alla menta; delle erbe amare con pistacchi e un tipo di “marmellata” chiamato charoset; della frutta fresca. E poi naturalmente pane azzimo. Il tutto innaffiato da vino aromatizzato. Vorrei aggiungere che questo menù lo abbiamo proposto solo perché in base alle nostre ricerche quell’ultima cena non accenna a Pasqua come si è soliti pensare”.
E di sicuro quel pasto non si è consumato attorno a un tavolo rettangolare…
La nostra immaginazione è troppo condizionata dal capolavoro di Leonardo da Vinci, che deriva da secoli di codificazioni iconografiche in cui si indicavano quali dovevano essere gli elementi tipici da inserire nella rappresentazione. Attraverso i dipinti siamo abituati a vedere Gesù e gli apostoli seduti dietro a un tavolo, mentre erano soliti mangiare semisdraiati e adagiati. Non c’erano triclini in tutte le case, ma, ovunque, tappeti e cuscini con una serie di tavolini bassi su cui veniva appoggiato il cibo”.
Che reazioni ha avuto il libro?
“In Italia pochissime, mentre all’estero siamo finiti su molti canali televisivi molto importanti. Ma abbiamo comunque raggiunto il nostro scopo, che non è necessariamente solo di ricerca, ma di divulgazione pura. Per noi divulgazione significa realizzare una mediazione culturale tra il mondo scientifico e il mondo degli appassionati o dei curiosi”.

Foto di Sarah Scaparone

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