Da Fiorucci a Frida Kahlo, la creatività infinita di Daniela Madeddu
Intervista di Nico Ivaldi
Fino a un po’ di tempo fa, la potevi trovare dietro il banco di un locale alternativo molto amato dal popolo della
Ci hai abbandonati sul più bello, cara Mad: ti sembra giusto?
Daniela abbozza un sorriso. “È già successo altre volte nella vita che il destino abbia deciso per me e mi abbia sconvolto i piani. Però anche questa volta sono pronta a cambiare e ad accogliere le nuove opportunità” dice accarezzando una delle sue ultime creazioni, un quadretto in acrilico che raffigura una delle sue MadMadonne.
Credevo che Casa Mad fosse ancora casa tua.
“Lo è stata. Uscivo dalla mia abitazione per entrare in un’altra. A Casa Mad trovavo vecchi e nuovi amici che a loro volta ne portavano altri e ogni sera si sperimentava qualcosa. E poi i miei piatti naturali piacevano molto ai clienti; ma non ho rimpianti, soltanto bei ricordi”.
E adesso dove pensi di andare?
“Mi piacerebbe trasferirmi in Sardegna, dove vive ancora mia madre”
“Mai dire mai” dice Daniela, quarantotto anni portati alla grande, sorseggiando una tazzona di caffè americano nel suo incasinatissimo atélier di via santa Chiara.
Di sicuro non è la prima, da quel poco che ne so.
“Ero una ragazzina, a diciotto anni ero già padrona del mio destino. Mi sono diplomata all’Accademia delle Belle Arti di Torino e volevo dipingere, ma dipingere per il teatro soprattutto. Invece il mio primo lavoro è stato quello di macchinista, sono stata la prima donna in Italia. Mentre preparavo la tesi sul musical al teatro Colosseo, ho conosciuto Saverio Marconi, che stava realizzando la versione italiana di ‘Chorus Line’. Gli ho chiesto se potevo dar loro una mano…”
E come è andata?
“Che il giorno dopo sono partita in tournée con la sua compagnia. Lavoravo di chiodo e di martello, montavo e smontavo le scene e visto che sapevo anche cucire e dipingere, mi utilizzavano come jolly. Ero l’unica donna tra tanti uomini, per di più giovanissima. Mi piaceva molto fare quel lavoro. Mi ha permesso di lavorare anche i big della musica, tra cui Baccini, Baglioni, Dalla, Ziggy Marley. Con Umberto Smaila è nata un’amicizia importante, abbiamo collaborato per sedici anni”.
Anni vissuti alla grande, direi!
“Ero gasatissima! Dopo l’esperienza come macchinista, volevo mettermi alla prova come assistente scenografa. Mi proposi alla Scala, dove passai il test senza problemi, ma non fui assunta perché nel Grande Teatro cercavano collaboratori con meno esperienza. Mi dissero che io ‘ero già oltre’. E forse avevano ragione. Quasi trent’anni fa i miei bozzetti erano decisamente moderni. Pensavo a un teatro dove lo spettatore potesse immergersi dentro, con poltrone profumate, foglie che cadevano dall’alto e finto sangue in scena, come nel caso del Macbeth”.
Era la vita che avevi sempre sognato?
“Sì. Vivevo a Milano 3 in una casa piccola e lavoravo tantissimo. Disegnavo sempre figure femminili – ero abbonata a Vogue, e lo sono ancora, dove prendevo spunti e idee – e poi le mettevo su tela. E dipingevo magliette che vendevo nei negozi. Un giorno, passando davanti allo showroom di Fiorucci in piazza san Babila, ho pensato: perché non tentare? Per farla breve entro, il commesso mi squadra, mi prende subito in simpatia e mi dà il numero della segreteria. Mi dice: ‘Chiama e prima o poi qualcosa accadrà.’ Ho composto quel numero per un mese di seguito, un numero fisso, ma nessuno rispondeva, o comunque, quando rispondevano, mi dicevano di richiamare perché Fiorucci non c’era”.
“No, io ero sempre fiduciosa. Finché il giorno di san Valentino del 1996 finalmente viene a rispondere Tito Pastore, assistente di Elio. Mi presento come pittrice, scenografa e macchinista. Lui mi dice: ‘Guarda, noi stiamo partendo per Londra, o vieni subito con le tue cose o altrimenti chissà quando potremo riparlarne.’ Avevo un’ora per decidere il mio futuro. Sono ritornata a casa e ho preso un taxi con una valigia di cartone piena dei miei campioni. Arrivo da Fiorucci, vado nell’ufficio di Tito e da lontano intravedo Elio col suo maglione. Il mio cuore batte a mille. Tito guarda le mie cose, sembra impazzito: chiama Fiorucci, gli urla ‘Elio, ci sono delle cose meravigliose che devi vedere.’ Elio arriva, guarda i miei bozzetti, alza gli occhi e mi dice: ‘Ma tu dove sei stata tutto questo tempo?’”
E tu?
“Tra un po’ svenivo. Rispondo: ‘A Torino’. Eh sì, dice lui, si vede, perché a Torino e a Bari ci sono i creativi più importanti d’Italia. Prende il telefono e chiama il responsabile della vetrina: ‘Da domani tenete libero uno spazio perché una certa Mad metterà le sue opere lì’, Era scattata la scintilla. Dal giorno dopo avevo sempre un mio quadro in vetrina. Tito mi adorava, gli ho voluto un bene dell’anima. Scoprii dopo che era l’art director di Fiorucci, in pratica il suo braccio destro. Una persona sensibile, con una grande capacità di capire la gente. Un giorno mi aveva dato da dipingere un paio di scarpe Timberland, perché Fiorucci non ne aveva voglia e si fidava di me. Mi metto al lavoro e in breve le mie scarpe, firmate Fiorucci ma con il marchio Mad, il mio, finiscono per fare il giro del mondo: sui giornali, sui cataloghi, nei principali musei, dal MoMa al Guggenheim di Bilbao, a Parigi, ecc. Alla fine vengono vendute all’asta per beneficenza, a comprarle è stata Franca Sozzani, la direttrice di Vogue”.
“Sempre, non si può smettere di sognare”
Ti pagavano bene?
“Non proprio: Elio Fiorucci mi concedeva gratis lo spazio delle sue vetrine, dove io potevo vendere i miei quadri e le mie maglie. Le vendite andavano bene, ho conosciuto molti artisti importanti. Ma il grosso della mia produzione veniva affidato ai distributori Le Coco, e Logo In, che in poco tempo resero disponibili in una decina di negozi in Italia e due in Europa circa duemila pezzi marchiati Mad (maglie, borse, gonne) per tre anni. Ho realizzato migliaia di magliette in poco tempo”.
Eri lanciata.
“Partecipavo a fiere nel mondo, avevo uno studio e una collaboratrice. A Milano andavo una volta al mese in riunione con tutti i rappresentanti. Per il resto del tempo stavo a casa a lavorare. Nel frattempo creavo scene per palinsesti televisivi e partecipavo a concorsi internazionali. Una vita piena, finché il sogno si è interrotto. Nel 2008 in quattro mesi la mia vita è cambiata: Franco, il mio compagno, è morto per un tumore al cervello. Per me è stata una sofferenza incredibile, ma anche una gioia per averlo potuto accompagnare nel lungo viaggio verso la luce”.
A quel punto che cosa hai deciso di fare?
“Non sapevo se continuare a fare moda o cambiare vita. Non aveva più senso che rimanessi lì da sola in quella casa, anche se Umberto Smaila insisteva perchè lavorassi ancora con lui”.
E Fiorucci?
“Nel frattempo ci eravamo allontanati perché io collaboravo anche con altre case e lui era un po’ geloso. Poco dopo morì anche Tito, vittima di una malattia fulminante. Per me sono stati due colpi tremendi. Tito mi adorava, mi dava sempre i consigli giusti. Morto Tito, Elio e io ci siamo riavvicinati: anche per lui è stato terribile elaborare la
I tavoli da lavoro di Daniela sono pieni di ritratti, di volti soprattutto di donne, presi dal vivo o da vecchie foto, che lei rielabora con colori brillanti. Lo sguardo di ognuna di esse parla, racconta l’emozione di un momento: innamoramento, allegria, seduzione, tenerezza, apatia. Un’Arte Pop al femminile.
Ma una figura spicca più di altre: Frida Kahlo. Mad conserva foto, libri, ritagli della celebre pittrice messicana.
“Frida oramai fa parte di me” spiega Daniela. “Mi è apparsa un giorno, quando Francesca, una giovane attrice del Teatro Nuovo, è venuta a Casa Mad perché voleva fare uno spettacolo su Frida. Anche se lo spazio era piccolo, ci siamo riuscite. Visto il successo, ci siamo inventate un format nel quale il singolo spettatore entra in una stanza e si siede, io Mad divento Frida pittrice (ho dipinto otto carte che rappresentano la sua vita) e quindi, vestita come lei, ritraggo la persona. Francesca recita la carta che la persona sceglie e Ilaria, un’altra bravissima artista, suona
Perché dici che Frida Kahlo fa parte di te?
“Ho scoperto di avere molte cose in comune con lei. Anche io sono stata quattro mesi immobile a letto, anche se per una caduta da una scala che mi ha provocato una grave frattura. In quel modo ho potuto capire la sua sofferenza. E poi amo quel suo essere femminile ma con una forte componente maschile. Adoro la sua passionalità, i suoi colori, la sua voglia di vivere. E come lei anch’io, purtroppo, non riesco a generare vita, a diventare madre. Però non ho ancora abbandonato le speranze”.
Potrebbe essere l’ultima, meravigliosa, esperienza della tua vita, non credi?
“Chi lo sa. Nulla mi sorprende più, ormai, nel bene come nel male”.