Il mondo di Coco Cano
di Federico Carle
Nilo Maria Cano Correa dei Paiva, da tutti conosciuto come Coco Cano, è un artista “totale”. Vive a Carmagnola (Torino) da quarant’anni ormai, dopo essere scappato dalla dittatura di Juan Maria Bordaberry negli anni Settanta in Uruguay. Il Paese “a forma di cuore”, come ama definirlo; anche se di cuori e di Paesi nella sua vita ne ha incontrati tanti. Perché Coco è un uomo dal cuore grande, che non vende quadri, ma regala gioia e felicità.
Ci riceve nel suo studio in centro. Carmagnola è una città meravigliosa, ricca di un barocco sabaudo rosso, vivo, che al tramonto si accende di tonalità, come le opere di Cano. Entriamo. La musica jazz ci abbraccia, il calore, il profumo dei colori rende magico un posto già in sé magico; metafisico.
Coco, Carmagnola è uno dei cuori di questa storia?
(Ride) In effetti il peperone quadrato, simbolo di questa città, ha la forma di un cuore. Ho pure disegnato il logo della Fiera che si tiene tutti gli anni d’estate.
Peperone che ha le sue radici in Sudamerica e che già Leonardo usava per i suoi affreschi, lo sapevi?
Sì, era un modo semplice per avere dei pigmenti. Anche noi lo facevamo in Uruguay: prendevamo dell’olio e lo mescolavamo alla terra. Terreni diversi, colori diversi… Ma anch’io sono “di origine” sudamericana – sorride – lo sai? Bisogna avere sempre un paese a cui tornare, come diceva qualcuno, e io per fortuna ne ho addirittura due! Infatti adesso che la dittatura è finita, posso andare nella mia terra ogni volta che ne ho voglia, e ci vado sempre molto volentieri. Anche se, contrariamente a quello che si pensa, l’Uruguay è come l’Italia: un Paese occidentalizzato, perché paga secoli di colonizzazione dei popoli europei.
Ma allora della favola che ci sarebbe piaciuto raccontare sui tuoi colori ispirati alle terre e ai paesaggi uruguagi, che cosa ne facciamo?
Beh in parte c’è, ma è più un’ispirazione alla cultura sudamericana in genere e non strettamente uruguaiana. Un legame anche al Costruttivismo di Torres Garcia, pittore al quale sono molto affezionato. Tuttavia i colori per cui sono diventato famoso, sono pura fantasia e sono arrivati tardi, con la nascita di Federico. Sì, con mio figlio ho iniziato a vedere il mondo a colori. Poi, ognuno può osservare quello che vuole, a dire il vero. Se volete vederci le tonalità dell’Uruguay, accomodatevi pure. È tutto giusto; il punto è che nemmeno io so quello che faccio, ma sento di doverlo fare. La cosa più bella è quando qualcuno ti dice: “In quel dipinto ho visto qualcosa che mi assomiglia”. In quell’istante ti senti realmente appagato.
Ma cos’è l’arte, per te?
Una chiave di lettura: siamo degli sciamani, dei mediatori che cercano di andare “oltre”. Per me è un modo di comunicare con gli altri, e questa credo sia la più grande fortuna.
Serve l’arte?
A essere felici. A vivere meglio. Sono molto legato alla filosofia di vita del mio presidente (in Uruguay, ndr) José Mujica. Lui – prigioniero per 15 anni in un pozzo durante la dittatura – ha rinunciato a una candidatura al Nobel per la Pace, e ha rinunciato al suo stipendio. Vive con poco, non è ricco, ma vuole lo stesso aiutare quella parte del suo popolo che non ha davvero niente. Ha scritto molti libri, uno che è stato anche tradotto in Italia, ha come titolo “La felicità al potere”. Ecco, secondo me è proprio questo il punto: bisogna avere il coraggio di essere felici, di lottare per la felicità. Una felicità che passa anche da un paesaggio, da un buon vino, dallo stare del tempo con le persone… ad ascoltare. La felicità non significa avere più soldi, ma meno cose. Significa ritrovare il tempo di fare azioni che sembrano fuori dal mondo, ma che invece proprio di questo mondo sono l’essenza. Guardare un tramonto, ascoltare il vento, osservare un panorama, odorare un fiore. Bisogna avere il coraggio di vivere una vita lenta, decelerata. Giusta.
Slow life, sul modello del tuo amico Petrini di Slow Food?
Sì, lo so che sembrano cose banali, trite e ritrite. Ma credetemi che non è così! Carlin me ne parlava già prima che partisse tutto, ci crediamo davvero. E poi è grazie a lui che ho fatto una delle mie prime mostre qui: a Treiso, terra di Barbaresco, della quale mi sono innamorato. Le Langhe sono un patrimonio da ascoltare; ecco cos’è l’arte: il nostro più grande patrimonio. Una sorgente inesauribile, per cui non servono trivelle.
Allora alcuni dei tuoi quadri sinuosi, dai colori caldi, dalle linee ondulate rimandano alle colline delle Langhe?
Può essere, anche se come dicevo non so cosa dipingo… Certamente da allora ho svolto tanti progetti lì: collaboro stabilmente con alcune aziende vitivinicole. Con loro abbiamo avviato anche un percorso – sul modello di quello che il maestro Beppe Vessicchio sta portando avanti con l’olio in Puglia – di coltivazione della vite con la musica. Già, mettiamo la musica per otto ore al giorno con delle casse rivolte alle piante, e vediamo che succede… Siamo ancora agli inizi, ma l’esperimento svolto sulle olive, e sulle altre colture, ha ottenuto risultati sorprendenti. Tutti gli esseri viventi si “nutrono” di vibrazioni, essere in sintonia col proprio tempo è la cosa migliore.
Ecco perché tu non porti l’orologio…
Certamente. Io non ho né il cellulare, né l’orologio. Voglio gestire il mio tempo, senza sprecarlo e senza perderlo. Infatti so sempre alla perfezione che ora è, perché provo a stare in sintonia. Sul cellulare: beh, ho il fisso qui a casa; se qualcuno vuole cercarmi mi trova. Ma non voglio essere schiavo di un apparecchio che può disturbarti in un qualsiasi momento della giornata nel quale magari stai facendo una cosa bella. Stai dipingendo, mangiando, dormendo, ascoltando qualcuno parlare, o facendo l’amore. Siamo succubi di un qualcosa che dovrebbe renderci la vita migliore, e che invece per certi versi la sta peggiorando.
I cuori, eravamo parti da qui… parlaci ancora delle tue “opere sociali”?
Eh sì, faccio tante cose. Perché credo, come dicevo, che l’artista si debba mettere a disposizione. Essere ascoltato e ascoltare. Deve comunicare, e l’arte deve essere sempre al servizio. Deve poter essere “utile” a qualcosa o a qualcuno. Sono contro gli artisti che si rinchiudono nei loro studi-isole e pontificano dall’alto. Per questo collaboro da tantissimi anni con le scuole e con le realtà che si occupano di sociale e disabilità. Così con la Fondazione Paideia ho svolto dei progetti (sempre a titolo gratuito, ndr) come “Il paese che sono io!”: una mostra di fotografie, ritratti e parole nata nel 2013 dall’incontro tra il fotografo Andrea Guermani e la scrittrice Anna Peiretti. Un modo per raccontare le storie di dieci bambini al di là delle loro difficoltà, disabilità e bisogni specifici. Col mio aiuto i piccoli protagonisti hanno realizzato il loro ritratto davanti allo specchio e con Anna si sono raccontati. Una mostra che ha viaggiato per oltre 50 città del Piemonte e non solo. Vado anche molto nelle scuole, e illustro libri, riviste per bambini e ragazzi. Anche in Uruguay: do una mano ad alcune Ong e ho colorato l’ospedale dei poveri di Montevideo.
E adesso, colori ancora?
Adesso… coloro di meno, effettivamente. Mi rendo conto di creare quest’anno delle opere con molti spazi bianchi, come trasparenti. Sto invecchiando, la vita scorre in fretta. Ma io ho la fortuna di potermi fermare, e ascoltare. La vita cambia, l’importante è che non ci cambi troppo. Come il Rio de la Plata che pur mutando colore in continuazione, rimane sempre uguale a se stesso. Un grande fiume che scorre. E che arriva al mare.