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Folgorato sulla strada del cinema. Giacomo Ferrante e le periferie torinesi – intervista di Nico Ivaldi

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Giacomo Ferrante, regista e documentarista delle periferie torinesi

Intervista di Nico Ivaldi

La fortuna alle volte ci vede benissimo.
Chiedetelo a Giacomo Ferrante, cinquantadue anni, regista e documentarista delle periferie torinesi, che di recente ha vinto una videocamera “pescando” un’oca di plastica nella vasca del luna park.
È la prima volta che in vita mia vinco qualche cosa” sospira Ferrante, detto Jack. “E proprio una videocamera, poi…”
L’hai usata subito?
No, ormai mi è passata la psicosi di quando avevo i calzoni corti”.
Quale psicosi?
Di riprendere di tutto: i litigi in famiglia, le feste di compleanno, i giochi con gli amici. La telecamera (all’epoca si chiamava ancora così, la mia era una Handycam Sony, acquistata a rate con i lavoretti di tre mesi in tre mesi) era la prolunga della mia mano destra. La portavo dappertutto e la usavo sempre, ero un bulimico”.
Dove giravi?
Per le strade del quartiere Falchera Nuova, che negli anni Settanta non era proprio una zona tranquilla. A quel tempo esisteva il triangolo pericoloso costituito da certe strade di Mirafiori Sud, Vallette e Falchera: ho sempre pensato che sarebbe stato bello farci un film. Raccontare i tre quartieri, ricercarne soprattutto l’aspetto antropologico, indagarne le condizioni di vita”.
Non a caso il tuo primo film – “Real Falchera F. C.”, del 1991 – è nato proprio nel quartiere.
Vero, anche se il primo video in assoluto è un lungo piano-sequenza della durata di otto minuti, intitolato ‘Se prendessero lei e lo mandano via?’, titolo preso durante un’accesissima discussione fra ex immigrati del Sud Italia e neo immigrati stranieri, all’epoca dei primi sbarchi delle navi cariche di albanesi. Per ‘Real Falchera F.C.’ ho utilizzato l’espediente sportivo per descrivere il quartiere attraverso la voce dei giovani tra i 22 e i 29 anni. Io ero uno di loro che solo per caso si trovava dietro la telecamera”.
È curioso come, proprio mentre Nanni Loy girava sulla piazza della Falchera Vecchia “A che punto è la notte”, tratto dall’omonimo romanzo di Fruttero e Lucentini, Giacomo Ferrante, alla Falchera Nuova, in collaborazione con Enrico Verra e Renato Ricatto, realizzava la sua prima opera.
Real Falchera è il mio primo film personale, quello in cui più che in qualunque altro da me girato metto a nudo me stesso attraverso le parole, i gesti, i tic, i modi di essere espressi nel film da coloro che erano (e sono) gli amici con i quali sono cresciuto nel quartiere della Falchera”.
Il film, specchio di una realtà degradata e povera di opportunità per tanti giovani, ottenne numerosi premi, tra cui il “Gabbiano d’oro” a Bellaria (“Siamo stati premiati direttamente dalle mani di Dario Fo, non ancora Nobel”, ricorda con orgoglio Jack Ferrante) ex-aequo con Ciprì e Maresco, Ciprì e Maresco ce l’hanno fatta. Lo scorso anno ad Anteprima avevano gustato l’aperitivo vincendo il concorso “Tre minuti a tema fisso”, quest’anno gli è toccata la torta del Gabbiano d’oro. O meglio una mezza torta poichè l’altra metà l’hanno dovuta lasciare nel piatto dei torinesi di Real Falchera. La giuria si è poi prodigata in una serie di menzioni speciali. Oltre a quella per Una notte d’agosto di Giovanni Martinelli, ne sono sbucatema divenne anche un caso politico: la Dc chiese la censura della pellicola, turbata dal linguaggio schietto dei protagonisti.

La cosa non mi ha toccato più di tanto. Piuttosto devo essere riconoscente a Daniele Segre e alla sua scuola Cammelli Factory, di cui ho seguito i corsi e imparato tanto”.
(Per chi non lo sapesse, I Cammelli, ormai da trentacinque anni sulla piazza, ha avviato decine di giovani all’attività di professionista audiovisivo nel sociale e non solo. Il suo fondatore, Daniele Segre, è noto per aver diretto una serie di documentari su vari argomenti in cui risalta la sua grande capacità di far parlare le persone)
Jack, al di là delle pacche sulle spalle che di certo non ti saranno mancate, con il tuo film hai guadagnato qualcosa?
Sì, cinque milioni poi reinvestiti in attrezzature. ‘Real Falchera F.C.’ fu poi trasmesso ovunque, in tutti i circuiti indipendenti e non soltanto in quelli”.
È vero che avrà un sequel?
Più che un sequel, sarà un ‘Real Falchera’ venticinque anni dopo. Ho intenzione di andare a ricercare gli stessi personaggi del tempo per vedere se e quanto sono cambiati. Naturalmente non possiamo ritornare negli stessi luoghi perché molti dei vecchi protagonisti sono andati a vivere altrove. Siamo soltanto all’inizio del lavoro con il collettivo Videocomunity, il copione è ancora tutto da scrivere. L’idea base è quella, ma il clima va ricostruito”.
Il quartiere, la gioventù, i problemi sociali: nella tua produzione sembra che tu non ti sia mai distaccato da questi temi.
Ed è accaduto anche nei lavori successivi che ho fatto su Barriera Milano, come ‘Alzabarriera’, una video inchiesta con interviste collettive tra i giovani che intervistavamo sul momento, seduti sulle panchine o intenti a chiacchierare fra di loro. Nell’approccio non abbiamo mai avuto nessun tipo di problemi, anche perché i ragazzi si prestavano al gioco, vedendo che parlavo il loro stesso linguaggio. È stato un lavoro faticoso, con persone che non conoscevamo per niente. Oggi questo lavoro andrebbe fatto tra gli immigrati. Credo che tocchi ai giovani di oggi documentare i cambiamenti in atto. I ragazzi di Falchera oggi sono i penultimi, trent’anni fa erano gli ultimi. Io la mia parte credo di averla fatta”.
Torino è sempre stata nel tuo cuore e nei tuoi progetti cinematografici. Con “Uomo della pietra” hai indagato una figura quasi mitologica tra tutti i personaggi “borderline” della vita cittadina degli ultimi cinquant’anni: Maurizio Marletta in arte Maciste, una specie di Mangiafuoco che si esibiva al mercato di Porta Palazzo sollevando una grossa pietra.
Conoscevo Maurizio Marletta fin da quando ero un ragazzo perché con mio padre andavo al Balon a vedere i suoi spettacoli. Ti confesso che mi spaventava, era grosso, pelosissimo, sembrava un orco ma non lo era, anzi. Mi sentivo sicuro soltanto perché c’era mio padre vicino a me che mi dava la mano, altrimenti sarei scappato a gambe levate”.
Conoscendo lo spirito selvatico di Marletta, ho idea che non dev’essere stato facile convincerlo a farsi riprendere.
È stata una lotta. Ci sono voluti più incontri per conquistare la sua fiducia. All’epoca aveva già smesso di esibirsi e viveva di piccoli commerci. Abitava in un sottoscala di via Bra, non lontano dalla vecchia casa di Gipo in via Cuneo. Non se la passava per niente bene, Maciste. Lui era un tipico personaggio pasoliniano. Proprio Pasolini lo chiamò per girare un film, ma alla fine non fu inserito nei protagonisti”.
So che aveva invitato amici e parenti alla “prima” in un cinema torinese, ma quanta delusione quando scoprì che il grande regista non l’aveva nemmeno menzionato…
Però c’è un altro episodio che la dice lunga sul personaggio. Accadde quando presentai il film al cinema Massimo con Steve Della Casa. Entrambi temevamo la sua presenza in sala, speravamo che Maciste non intervenisse, conoscevamo bene la sua esuberanza. Infatti lui non deluse le attese. Terminata la proiezione, si alzò in piedi, si asciugò le lacrime per la commozione e cominciò a parlare. Il pubblico era divertito dal suo linguaggio tutto particolare, mezzo siciliano e mezzo italiano. Maciste parlava come se si trovasse a Porta Palazzo e non smetteva di raccontare. Steve entrò in crisi perché stava sforando di brutto i tempi e dovetti usare tutta la mia diplomazia per convincerlo a terminare il suo discorso. Il film ebbe due repliche sempre al Massimo. Mi hanno raccontato, perché io non c’ero, che lui andò al cinema tutte e due le volte e ogni volta si commuoveva e piangeva. Era il vero personaggio pasoliniano perché possedeva quella grazia che, secondo lo scrittore, appartiene soltanto agli ultimi, ai non istruiti, ai semplici”.
Tra i tuoi maestri, oltre a Pasolini e Daniele Segre, forse un posto importante lo occupa anche Nanni Moretti.
Fino a un certo punto, anche se è vero che mi sono ispirato a lui quando ho girato un documentario durante i congressi torinesi del Partito Comunista poco prima della sua divisione. Un po’ quello che fece Moretti quando girò ‘La Cosa’, solo che in questo caso la mia cosa era locale. Gli detti un titolo alla Wertmuller: ‘Il penultimo lustro rosso del secolo-Aspettando l’avvento del nuovo millennio’. Esattamente come lui intendevo testimoniare i dibattiti nei giorni successivi alla svolta di Occhetto di trasformare il PCI in un nuovo soggetto politico. Dentro ci ho messo tutta la mia passione, io stesso militavo nel Partito Comunista ma come indipendente, ho sempre voluto mantenere una mia autonomia di giudizio, che ho pagato in prima persona.
È del 1999 il tuo documentario intitolato “Viva la guerra”, un atto di accusa contro il conflitto nei Balcani.
Non soltanto contro la guerra, ma contro la prima guerra italiana di offesa da parte di un governo sedicente di centro sinistra nel Kosovo. Era un lavoro fatto con materiale non mio, ma ripreso dalla televisione e montato con canzoni di Edoardo Bennato. Anche quello suscitò le sue brave polemiche”.
Se dovessi ricevere un mega-contributo, che film ti piacerebbe girare?
Farei sempre una cosa locale. O magari un lavoro sulla Sicilia, la terra dei miei genitori. Quell’idea ce l’ho sempre in testa: andare là e riscoprire le classiche radici”.
D’altronde, alle operazioni nostalgia Giacomo Ferrante, folgorato sulla strada del cinema da “Ricomincio da tre” quando era un ragazzino, ci è abituato. L’ultima sua “pazzia” da buon cinefilo è l’adesione alla campagna di raccolta delle videocassette, le vhs tanto per capirci, alla quale ha contribuito con le oltre quattrocento da lui raccolte nel tempo, soprattutto i “Fuori Orario” di Enrico Ghezzi.
Ho aderito subito all’iniziativa del regista Massimiliano De Serio, ‘L’inventario delle videocassette perdute’. Vedi, oltre al mio, esiste un patrimonio di videocassette nascosto nelle cantine e dentro scatoloni che nessuno, per affetto, ha il coraggio di gettare via. Adesso con il contributo di tanti sta nascendo un cineforum familiare, il Piccolo Cinema, in via Cavagnolo 7, in Barriera Milano, dove semplici curiosi e studenti potranno andare alla scoperta o riscoperta di un mondo che scorreva alla velocità del nastro magnetico tirato dalle due bobine. Tutti i vhs verranno catalogati per organizzare una piccola videoteca. Cerchiamo perfino cartoni animati, che i giovani di oggi non conoscono”.
Certo sarà curioso rivedere i film “registrati” dalla tv, quando la prima serata iniziava alle 20,30 e in mezzo ci stavano gli spot e magari pure un breve tiggì con i volti di Frajese o della Buttiglione. Ma questa è un’altra storia, della televisione italiana e anche nostra.

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