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La calma del professor Bonetto. Marina Rota ricorda Claudio Gorlier – Parte I

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Incontenibile, dissacrante, enciclopedico: in ricordo di Claudio Gorlier

di Marina Rota

Compariva sulla porta della sua bella casa all’ultimo piano di via Valfrè, arredata da libri e collezioni di oggetti indiani, africani e americani, immersa nell’atmosfera dei ricordi di una vita e in un silenzio invidiabile, interrotto solo dalle note del Silenzio che provenivano dal cortile della caserma Cernaia. Entrata nel salotto, sprofondavo in una poltrona verde un po’ vissuta, di fianco a lui, asfissiata per ore dalle sigarette e dai sigari che Claudio fumava ininterrottamente, ragione per la quale mi invitata ad accomodarmi vicino a un vecchio macchinario da lui definito “aspirafumo” – che a mio parere, anziché aspirare il fumo, me lo inalava direttamente in gola.
Si presentava in abiti da casa, data la familiarità della nostra amicizia, accogliendomi con un sorriso e un “Oh, mia cara, che felicità!”, con quella intonazione vagamente americana, oltre che torinese. Non per nulla Claudio Gorlier, mancato il 4 gennaio di quest’anno (e non a casa sua, come è stato riportato da “La Stampa”, ma al Principessa Felicita di Savoia), era il più grande americanista italiano. Ma anche giornalista, saggista, traduttore, Professore Emerito di Lingua e Letteratura dei Paesi anglofoni – il primo a vincere questa cattedra nel nostro Paese. Aveva conosciuto tutti gli scrittori e intellettuali più rappresentative del Novecento; aveva diffuso in Italia la conoscenza di scrittori come Gore Vidal e Philip Roth. Era, anche e soprattutto, “un turista culturale”, come amava definirsi; un lettore di finissimo palato, che fiutò in anteprima i futuri premi Nobel J.M. Coetzee e Wole Soyinka (ovviamente, suoi amici); un intellettuale irriverente e curioso di tutto, arguto, col gusto della battuta dissacrante e a volte caustica verso certi aspetti di amici e maestri che pure aveva sinceramente stimato. E al quale, per questi motivi, mal si adatterebbe un ricordo agiografico, che cristallizzerebbe la sua figura di intellettuale fuori dagli schemi, incurante delle conseguenze negative che comporta, in certi ambienti, l’essere semplicemente se stessi.

Un incontenibile affabulatore
Del professor Gorlier leggevo abitualmente gli articoli e le recensioni su “La Stampa”, ma lo conobbi personalmente solo quindici anni fa, ad una serata in memoria di Franco Lucentini, appena mancato. Dopo l’incontro parlammo a lungo, e al momento del commiato Claudio, fra le volute di un sigaro, mi disse con un accenno di inchino: “Sans adieu”, un saluto che mi ripeté poi al termine di tutti i nostri incontri. Mi aveva colpita, in quell’occasione, il suo ricordo di Lucentini così incisivo, pur nella stringatezza: avrei capito ben presto che Claudio, conciso nei suoi interventi pubblici per “non tenere in ostaggio gli spettatori”, era in privato un affabulatore incontenibile, che raramente lasciava spazio di intervento ai suoi interlocutori. Ricordava il linguista Gianluigi Beccaria, giurato del Premio Mondello, che, seduto accanto a lui in un volo Torino-Palermo, non riuscì a profferire un solo verbo, travolto dall’inarrestabile parlantina di Claudio. E quando portai i saluti di Gorlier a Carlo Fruttero, questi mi chiese se era ancora “ammalato di logorrea”. Io replicai: Claudio è in pensione, avrà nostalgia dell’uditorio dell’Aula Magna”. No no”, rispose il pungente Fruttero, “era così già a tredici anni”.
Alle serate a casa mia, nessuno riusciva ad inserirsi nei suoi caleidoscopici monologhi, e per un’intera giornata riuscì a tener banco anche con Vittorio Sgarbi, che gli avevo presentato e di cui divenne amico. Vittorio, una guancia sulla mano, gli poneva domande di poche sillabe, subito travolto dalle risposte, e lo ascoltava con rispetto e interesse, suscitando sorpresa nei presenti che non conoscevano bene né l’uno, né l’altro. Il fascino dell’eloquio era accentuato dalla sua voce, che rimase giovane, chiara e musicale fino alla fine. Dopo averlo ascoltato nella trasmissione radiofonica “Tramate con noi”, un’amica mi domandò se Gorlier avesse più di quarant’anni, quando ne aveva ampiamente superati il doppio. Da giovane aveva condiviso con Gianluigi Beccaria e il professor Eugenio Corsini la passione per il canto con voce maschile in tono altissimo, da clarino, il “sopranino” (in dialetto, sufranin); e un suo grande motivo di orgoglio era che Mario Brusa gli aveva detto, una volta, che era nato per fare l’attore.

La calma del professor Bonetto
A proposito di Fruttero e Lucentini e del citatissimo americanista Bonetto de La Donna della domenica, Claudio assumeva una posizione ambigua: se se ne parlava con simpatia, ammetteva di essere stato lui l’ispiratore del personaggio; se invece si irridevano i suoi difetti replicava: “È assolutamente evidente che hanno descritto al maschile Fernanda Pivano”.
Ciò che a prima vista poteva colpire di Claudio, poco incline a turbamenti emotivi, era la sua imperturbabilità da uomo tranquillo. A questo proposito, mi ripeteva spesso una lezione di suo padre, che nonostante gli anni non aveva mai dimenticato: La calma è più importante del coraggio”. Proprio la calma più importante del coraggio gli aveva consentito, nel 1944, giovane partigiano di Giustizia e Libertà, di dormire le sue abituali nove ore per terra, sulle pagine della Stampa, pur rischiando il giorno dopo di essere impiccato, come era appena avvenuto con tre dei suoi compagni. Mi ripeteva spesso questo aneddoto: Pensavo: se anche mi impiccano domani, tanto vale farsi una bella dormita”.
Aveva un sonno di piombo; e se intratteneva gli ospiti fino ad ore antelucane con la sua irresistibile verve, avevo la consegna di non chiamarlo prima delle 9:30, l’ora in cui sorbiva il suo caffè all’americana nella tazza della Juventus che gli avevo regalato, con altri gadget della sua squadra del cuore.
Non appena ricordava qualche episodio rimasto sepolto nella sua prodigiosa memoria, mi telefonava per raccontarlo; e se non lo chiamavo per un paio di giorni mi sentivo scandire freddamente dalla sua voce: Volevo solo dirti che sono ancora vivo”. Apprezzava molto la compagnia, ma viveva benissimo solo con se stesso, senza apparenti voragini di vuoto. Faceva eccezione il mese d’agosto, che lui, negli ultimi anni, temeva, ragione per cui potevo chiamarlo a qualunque ora ed allertare il 118 se non avesse risposto: in quel periodo, infatti, la sua vicina e amica andava in vacanza, e Claudio non aveva mai dimenticato quel drammatico agosto 2007, in cui il suo amico ispanista Angelo Morino era stato trovato morto in casa.

L’aneddotica torinese
Grazie ai ricordi di Claudio ho avuto la fortuna di “vivere” l’epoca della sua giovinezza; quella di una Torino ricca di fermenti culturali, sociali e politici; attraverso i suoi occhi ho scoperto l’America di fine anni Cinquanta, quando il poco più che ragazzo Gorlier vinse, con Fernanda Pivano e Gillo Dorfles, una borsa di studio per l’Università dell’Indiana indetto da una casa farmaceutica, vivendo nella realtà quello che per Cesare Pavese ed Elio Vittorini era rimasto un sogno irrealizzato, un mito da leggere e tradurre.
Ricchissima era la galleria delle figure del panorama culturale italiano e internazionale che Claudio aveva intervistato, tradotto e con le quali aveva intrattenuto rapporti di buona conoscenza o d’amicizia, e che si delineavano vive davanti ai miei occhi, con poche pennellate di colore. Una per tutte, Flannery O’Connor, che Claudio andò a intervistare nella sua fattoria di Milledgville, Georgia, fra i pavoni adorati dalla grande scrittrice, che lo trattenne a cena e poi gli dedicò un racconto ricavato dalla loro conversazione.
Restando a Torino, il già ricordato Carlo Fruttero, che il padre di Claudio definiva “un ragazzo tutto storto” perché già snob e controcorrente fin da ragazzino (“era felice quando bombardavano Torino, perché non si andava a scuola”) e che, per la prima volta a Parigi con Gorlier e Roberto Radicati di Marmorito, una volta finiti i soldi andava in giro in triciclo per raccogliere le bottiglie vuote nei caffè. Elémire Zolla, lui pure docente di Letteratura Angloamericana ma al quale, a differenza di Gorlier, venne negata la partecipazione al prestigioso Harvard International Seminary fondato da Henry Kissinger (“pronuncia corretta ‘Kissinger‘ e non ‘Kissingher‘”, ci teneva a precisare) per uno scontro col viceconsole riguardante il rischio che sposasse un’americana (“Elémire gli rispose seccamente, col suo superbo inglese: ‘Certamente, non sposerei mai un’americana che avesse il suo accento!’“); Italo Calvino, (“scrisse Il sentiero dei nidi di ragno in una squallida stanza di via XX Settembre”); Cesare Pavese, che, fumando con lui sul balcone della sede del Pci di via Monte di Pietà, gli confidava i conflitti esistenziali e politici nei confronti della sua generazione, perchè “non aveva partecipato alla Resistenza”; il raffinato intellettuale Franco Antonicelli, co-fondatore e anima dell’Unione Culturale di via Cesare Battisti, ospite dei primi esperimenti di living theatre (“Un gruppo di attori sfilava fra il pubblico, scandendo lo slogan Stop-the-War-in-Vietnam!, invitando gli spettatori a unirsi a loro. Il pubblico sabaudo, ovviamente, non si mosse; finché dalla prima fila si alzò la famiglia Agnelli e diede il via a tutti”); Raf Vallone, “di cultura discreta anche se non sistematica”, ex calciatore a riposo per via di una malattia polmonare e responsabile della pagina culturale dell’Unità, dove Gorlier iniziò la sua brillante carriera giornalistica.

Fine della I parte

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