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    Un lavoro “fuori concorso”. Davide Cardea, l’ultimo proiezionista di Torino – Intervista di Nico Ivaldi

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    By Nico Ivaldi on 31 Agosto 2017 Archivio, Le Interviste di Nico Ivaldi, Piemonte Mese Settembre 2017

    Davide Cardea, l’ultimo proiezionista di Torino

    Intervista di Nico Ivaldi

    L’ultimo proiezionista di Torino è un uomo così romantico che ha chiesto – e ottenuto – di essere intervistato nel cinema che l’ha tenuto a battesimo, oltre vent’anni fa.
    Prima della chiusura e della successiva riconversione nel Blah Blah (locale che conserva ancora l’antico portone della sala e le file di tavoli ordinati “a carlinga”) qui, in via Po 21, sorgeva il cinema King Kong, dove ebbe luogo la prima proiezione dei fratelli Lumière in città e dove Cesare Pavese andava a vedere i film in lingua originale, soprattutto inglese, quando si chiamava Cinema Po.
    Davide Cardea, quarantasette anni, l’ultimo proiezionista della città, si guarda intorno felice e nostalgico. E, immaginandosi ancora chiuso nella piccola cabina di proiezione, racconta che tra lui e il cinema è stato subito amore a prima vista. Fin dai tempi in cui, ragazzo, diventò amico del suo vicino di casa, Davide, figlio di un cugino dell’attore torinese Aldo Maccione, sì, proprio lui, l’ex Brutos, l’inventore della “marche du séducteur”, il dongiovanni guascone e impertinente consacratosi definitivamente in Francia dopo alcuni film del genere “pecoreccio” in Italia.
    “Di Maccione sapevo tutto perché i suoi parenti mi parlavano di lui” racconta Cardea. “Ho visto tutti i suoi film e riso tantissimo. Qualche anno fa volevo perfino andare a intervistarlo in Provenza, dove vive; oggi è un uomo molto ricco che ha fatto affari nel settore immobiliare. Sono sicuro che avrebbe molto da dire di un cinema italiano che l’ha esiliato troppo presto”.
    Ma c’è un altro indizio che ha spinto Cardea nelle braccia della Settima Arte.
    “Pensa che il cugino di Maccione aveva abitato da ragazzo in via Palazzo di Città, dove viveva, in precarie condizioni economiche, la famiglia Volontè dopo la morte del padre di Gian Maria, ufficiale delle Brigate Nere, in circostanze misteriose. A me piaceva ascoltare i racconti di quell’amicizia fra coetanei poveri e senza prospettive, che si scambiavano le scarpe e i vestiti per potere essere presentabili nelle, rare, occasioni che contavano, comunioni, feste comandate. Cominciai a vedere i film di Volonté e ad appassionarmi a questo nostro grandissimo attore”.
    Poi fu soltanto la voglia matta di Cardea di cominciare un proprio percorso alla scoperta del cinema, proseguita con l’amicizia con un altro autodidatta come lui, Giulio Bevilacqua, con il quale ancora oggi ingaggia interminabili quiz cinematografici sul cinema noir francese degli anni Cinquanta e sulle pellicole neorealiste italiane.
    (Chi scrive ha assistito, incredulo, allo scambio di whatsapp dove i due si mandavano fotogrammi a un profano irriconoscibili, sfidando l’altro a riconoscere il film, ovviamente molto datato, e a indicarne il titolo, il regista e l’interprete principale…)
    “Frequentavo il Café Liber in via Barbaroux, luogo di aggregazione per artisti, studenti e appassionati cinefili, che potevano disporre di una nutrita videoteca. Cominciai a mangiare pane e cinema. A metà degli anni Novanta entra nella mia vita Luigi Paratella, proprietario di un famoso negozio cittadino di manifesti cinematografici, ‘Jules e Jim’. Bazzicavo nel suo negozio come tanti altri giovani appassionati, anche se le mie finanze non mi permettevano di acquistare i suoi memorabilia. A causa del suo carattere scorbutico non era così facile entrarvi in confidenza, ma io ci riuscii e nacque un’amicizia. Un giorno Paratella mi propose un lavoro: girare nelle vecchie sale abbandonate del Piemonte e cercare manifesti, ma anche sedie, oggetti, materiali interessanti per collezionisti”.
    Naturalmente Davide accetta e la strana coppia comincia a battere i piccoli e vecchi cinema, dall’Astigiano al Cuneese, dall’Alessandrino al Vercellese.
    “Arrivavamo nei piccoli paesi, ci facevamo aprire dai vecchi proprietari delle sale ormai dismesse e quello che ci interessava, destinato al macero, lo portavamo via: cartelloni con gli orari degli spettacoli, insegne di toilette e di ingressi, ovviamente locandine, perfino poltrone, che Luigi rimetteva a posto e poi rivendeva. Nel ‘94 accade che Paratella, durante il Torino Film Festival che si svolgeva al cinema Massimo, e dove lui aveva un’esposizione interna di cimeli, conosce il direttore della Cineteca di Lisbona. Luigi lo invita a visitare il suo negozio e l’uomo vede un bellissimo manifesto di tela di un film americano degli anni Cinquanta, innamorandosene perdutamente. Se mi chiedi il titolo di quel film ti anticipo che non me lo ricordo, ma cambia poco ai fini della storia”.
    Ti perdono. Che successe poi?
    “Paratella gli chiede cinque milioni per quel manifesto ma il direttore non accetta e, finito il festival, se ne ritorna in Portogallo. Luigi ci rimane male per quell’affare sfumato e un giorno mi propone di accompagnarlo fino a Lisbona portando il manifesto, perché era sicuro di venderglielo. Io all’epoca non lavoravo e così, imbarcato un altro amico, partiamo per quel viaggio della speranza. Carichiamo il pesante manifesto sulla Fiat Uno: era così scomodo che sembrava un tappeto arrotolato: stava allungato dal cruscotto al sedile posteriore. Duemilacinquecento chilometri diretti, forse con una sola sosta, Luigi non vedeva l’ora di arrivare. Ingannammo il tempo parlando molto di Volonté, che lui conosceva personalmente perché spesso andava sul set dei suoi film. Finalmente, dopo tre giorni di estenuanti contrattazioni, Paratella riesce a vendere il manifesto e a intascare i cinque milioni richiesti. Per noi si trattò di un’esperienza indimenticabile”.
    Ormai ti sentivi pronto per tentare il salto nel mondo del cinema, vero?
    “Assolutamente, non mi immaginavo in nessun altro posto che non fosse una sala! Qualche tempo dopo, infatti, eccomi al lavoro nella piccola cabina del King Kong. Non lo so se questo sia il mestiere più romantico del mondo, come sostiene qualcuno” dice Davide pensando sicuramente al Totò del film di Tornatore (e, perché no, all’ufficiale del Kgb Ivan Sanchin, proiezionista privato di Stalin nel film drammatico di Andrej Koncalovskij). “Di sicuro era una gran lavoro di tecnica”.
    Che cosa facevi esattamente?
    “All’inizio montavo le pizze. Dovevo fare le giunture che servivano a far combaciare perfettamente la pellicola, di modo che durante la proiezione non si vedesse il segno. Ricordo che quando una sera proiettammo ‘Omicrom’ di Gregoretti, arrivarono cinque bobine dalla cineteca di Bologna. L’idea di maneggiare quella pellicola degli anni Sessanta mi emozionò molto”.
    Non voglio immaginare il clima che si respirava in cabina…
    “Faceva molto caldo, era un lavoro da fare senza camicia addosso, la lampada e il proiettore scaldavano da morire”.
    Quali erano gli inconvenienti che potevano capitare durante la proiezione di un film?
    “Beh, il peggiore era un brutto strappo di pellicola. Ovviamente succedeva sempre quando la sala era piena, mai in settimana, quando c’erano cinque spettatori anziani di cui tre appisolati. E sempre la domenica pomeriggio, o il sabato sera. E tu dovevi essere molto veloce a rattoppare. Avevo formato dei giovani e quando c’era un proiezionista alle prime armi mentre lui era in sala, io salivo rapidamente in cabina e zac! tagliavo un pezzo di pellicola in un punto qualsiasi, naturalmente a cinema pieno. La luce di emergenza si accendeva e il poveretto, grondando sudore, saliva in cabina e solo allora valutavi le sue capacità tecniche, ma soprattutto il suo sangue freddo. Bisognava risolvere il problema nei quattro o cinque minuti canonici. Quello del taglio a sorpresa era un trucchetto che mi ero inventato per capire se il ragazzo era idoneo o meno a gestire il lavoro”.
    Davide, ricordi il tuo primo e ultimo film da proiezionista?
    “Il primo che montai da solo fu un film che ritengo molto brutto e troppo agiografico, ‘Pasolini un delitto italiano’, di Marco Tullio Giordana. L’ultimo, che ho molto apprezzato, è stato ’Nelly e Mr. Arnaud’, con Michel Serrault e la splendida Emmanuelle Béart. Poi è finita l’epoca della pellicola ed è arrivato il digitale. E anche quel lavoro così antico e artigianale è finito in soffitta. Dopo, mi sono occupato di gestione sale, sono stato l’ultimo responsabile di sala del cinema Lux prima della ristrutturazione”.
    Nei tuoi anni da proiezionista chissà quanta bella gente avrai conosciuto….
    “Sì, soprattutto molti registi e attori. Ma voglio ricordare due personaggi non famosi che per me hanno rappresentato molto. Il primo era Antonio Copparoni detto ‘Coppa’, che si vantava di aver visto tutti i festival cinematografici d’Europa, un’istituzione delle sale torinesi: maschera, tuttofare, critico, buttafuori. A me ha insegnato a ‘guardare’ il cinema. E poi Fulvia Rota, l’ultima, storica cassiera torinese. Per quarant’anni Fulvia ha sbigliettato tutti i più importanti film. Praticamente nella mia sala l’ho accompagnata alla pensione. Ecco, se dovessi immaginare un altro ruolo storico di una sala cinematografica direi anche quello della cassiera…”
    Ma il proiezionista…
    “Beh, quello è unico, è fuori concorso…”

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