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Vite sullo schermo. Incontro con Irene Dionisio – di Francesca Mogavero

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incontro con Irene Dionisio

di Francesca Mogavero

Irene mi saluta e sul suo viso si legge una stanchezza assoluta, piena, calda, che trasuda entusiasmo: è la stanchezza di chi sta “davanti al pc fino alle tre di notte” facendo ciò che ama e per cui ha lottato e sta ancora combattendo. Una stanchezza che è un traguardo e un continuo inizio, perché le cose da fare, le riunioni e i pensieri sono tanti.
Irene è una di quelle persone che non soltanto è capace di sopravvivere alla tempesta e di ballare nella pioggia, ma lo fa portandosi la macchina da presa sulle spalle, perché ogni goccia è importante e merita di essere raccontata.
Irene è Irene Dionisio, torinese classe 1986, regista, sceneggiatrice, soggettista e dal 2017 direttrice del Lovers Film Festival Torino LGBTQI Visions.
Lo sguardo, la vivacità, la capacità di mettere a proprio agio chi le sta di fronte sono gli stessi dei tempi del liceo, il Gioberti, ma negli anni dopo la maturità il suo bagaglio si è ulteriormente arricchito di viaggi e riconoscimenti. La laurea in filosofia estetica e sociale a Torino, il Master di documentarismo diretto da Daniele Segre e Marco Bellocchio e il Master Ied diretto da Adelina Marazzi. L’associazione culturale e artistica Fluxlab (www.fluxlab.it) e l’associazione Wild Strawberries (www.wildstrawberrieslab.com), di cui è fondatrice, e il progetto “Proibitissimo!” a cura di Viola Invernizzi, realizzato in collaborazione con Associazione Museo Nazionale del Cinema, Dugong Film, Film Commission Torino Piemonte e con il contributo e l’affiancamento di Hangar Creatività e Centre d’Art Contemporain di Ginevra.
Irene ha all’attivo nove documentari scritti e girati tra il 2010 e il 2015 e un lungometraggio, Le ultime cose (2016), presentato in concorso (unico italiano) alla Settimana Internazionale della Critica della 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ma tanto altro bolle in pentola. Ed è lei stessa a raccontarcelo.
Iniziamo con un ricordo personale: sei stata proprio tu, negli anni di liceo, a “presentarmi” Ingmar Bergman (e te ne sarò sempre grata!): ricordo che fin da allora parlavi de Il posto delle fragole. Oggi, sul sito dell’associazione Wild Strawberries campeggia una citazione tratta proprio da quel film: possiamo dire che il cinema è una passione che ti accompagna da sempre?
Sì, certo, è un lavoro che amo da tantissimo tempo. Sono sempre stata un’appassionata di cinema, da piccola guardavo tanti film, mio zio aveva una videoteca incredibile e io mi piazzavo a casa sua a guardare le videocassette (anche quando faceva il turno di notte e avrebbe voluto dormire)! Durante il liceo ho coltivato questa mia passione, anche grazie ai laboratori. All’università ho poi seguito diversi corsi di documentario e ho capito che in questa forma d’arte potevano confluire i miei interessi, l’amore per la filosofia, il desiderio di incontrare le persone”.
Qual è il tuo rapporto con Torino e come ti ha influenzata?
Torino offre tanto a livello di istituzioni e di realtà associative per chi ama il cinema. Grazie a realtà come Film Commission ho avuto la possibilità di fare documentari a livello professionale”.
E cosa hai riportato a casa dalle tue esperienze in Francia e in Tunisia?
Del periodo francese mi sono piaciute molto la libertà e la modalità di studio: oltre che sul programma d’esame, i voti finali si basavano anche su mémoirsdi ricerca: in questo modo ho potuto approfondire tanti temi, interiorizzandoli e filtrandoli anche attraverso le mie opinioni e la mia sensibilità personale. I viaggi in Tunisia [dove ha lavorato a un progetto sulla censura locale e sulla chiusura delle sale cinematografiche, ndr] mi hanno insegnato molto sul Maghreb e su quanto la religione islamica sia stata mistificata”.
Quale progetto ti ha regalato più emozioni e soddisfazioni?
Tutti. Ognuno rappresenta un periodo molto intenso della vita: ogni film, ogni documentario, ogni progetto è un passaggio,che tu provi sempre a comprendere al meglio”.
Fières d’être Pute, realizzato nel 2010, è il tuo primo documentario. Le ultime cose, il tuo lungometraggio, è del 2016: cosa è cambiato in sei anni di attività, cosa è cambiato in te?
Questi sei anni sono passati molto velocemente. Ho avuto la fortuna di esordire giovane (cosa rara in Italia) alla regia di un film, e questo mi ha dato l’energia per continuare e per cercare di aprire un varco in cui altri professionisti della mia generazione possano inserirsi”. Come sono cambiata? Mi sono resa conto che questo lavoro, per quanto creativo, deve confrontarsi con le forme di potere. Ora comprendo meglio queste dinamiche, pur continuando a pensare che non si debba mai perdere l’onestà. E io non credo di averla persa”.
Come descriveresti la tua esperienza di direttrice del Lovers Film Festival?
Ne capisco la portata: l’esperienza di Lovers è stata coraggiosa, rivoluzionaria, e sta funzionando. Introdurre la tematica femminile è stata una scelta importante e discussa; la questione femminile, però, non è così lontana dal mondo LGBTQI: le donne sono le maggiori vittime dell’odio, anche sui social network (si contano oltre 350.000 tweet contro le donne). Questo festival è una tradizione, ma avendo anche una valenza civile, occorre che si avvicini sempre di più alla contemporaneità in cui è calato… e tutti i cambiamenti richiedono tempo”.
Nei tuoi lavori parli di minoranze, prostituzione, identità di genere, crisi economica, censura: l’arte, mostrando e narrando la vita vera, può influire sulla vita stessa? In che modo?
Dopo l’uscita di Le ultime cose mi è stato chiesto di dirigere Lovers: nel film si affronta anche il tema LGBTQI, ed essere poi coinvolta nel festival dedicato proprio al cinema LGBTQI mi ha emozionata molto. Significa che l’arte è potentissima, che può davvero muovere, cambiare le cose. Non c’è nulla che arrivi al cuore come l’arte”.
Il Nastro d’Argento, il Premio Solinas, il Premio Filmmaker, il Premio Glocal e diverse nomination: tanti riconoscimenti in un ambiente ancora prevalentemente maschile…
La questione femminile, il fatto che i film in concorso non siano quasi mai diretti da donne, non dipende dai festival, ma parte dalla base: le donne hanno ancora un atteggiamento di autocensura nei confronti del potere. Anche l’immaginario gioca un ruolo fondamentale: siamo abituati a collegare il potere sempre alla stessa immagine, quella di un uomo maturo vestito in un certo modo. Vedendo una donna e un uomo seduti allo stesso tavolo, chi dei due ci viene spontaneo pensare che sia il capo? Le donne possono essere autorevoli, ma l’autorità è ancora legata all’immaginario”.
Cosa cambieresti del panorama cinematografico e artistico attuale?
Si dovrebbe tentare di inserire nuove voci, creare vivai di giovani creativi – uomini e donne alla pari – che possano entrare nel mondo del cinema”.
Il classico della cinematografia mondiale che avresti voluto dirigere?
Zabriskie Pointdi Michelangelo Antonioni”.
Le tue prossime sfide?
Sto scrivendo il mio secondo film, siamo alla fase del trattamento [uno dei passaggi intermedi tra il soggetto e la sceneggiatura, che consiste nell’approfondire e ampliare in una forma narrativa simile al racconto il soggetto iniziale, ndr]e poi presenterò la videoinstallazione Il mio unico crimine è vedere chiaro nella notte, nata dalla ricerca “PROIBITISSIMO!”, alla Biennale delle Immagini in movimento di Ginevra”.
Io prenoto già il mio posto al cinema e inganno l’attesa riguardando un film di Bergman…

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