Remigio Zena e “La cavalcata”
Il matrimonio infelice della marchesa Lascaris forse ispirazione per un racconto a tinte fosche
di Piervittorio Formichetti
I racconti di genere horror, magico e occultistico di autori italiani entrati nella storia della letteratura italiana sono poco conosciuti rispetto alle opere analoghe straniere: moltissimi hanno letto Dracula di Bram Stoker o Frankenstein di Mary Shelley, ma pochi conoscono i racconti tenebrosi di Igino Ugo Tarchetti e alcuni simili di Luigi Capuana o Remigio Zena. Inoltre, anche la letteratura horror, essendo una forma d’arte, trae origine dalle circostanze più disparate: leggende, folklore, avvenimenti storici più o meno importanti, fatti di cronaca nera, episodi di vita immaginata o vissuta dai loro autori (ad esempio i “Magri Notturni”, figure spettrali che apparivano negli incubi di H.P. Lovecraft da bambino, oppure il vampiro che si levava dalla tomba nell’incubo che Stoker – secondo ciò che scrisse lui stesso – ebbe dopo un’indigestione di gamberi!). Perciò è sorprendente scoprire che un racconto horror italiano non molto conosciuto possa probabilmente aver tratto origine anche da un episodio della storia piemontese, avvenuto nell’alta società di Torino.
In La cavalcata, ambientato negli anni contemporanei dell’autore, il giallo ruota attorno al ruolo che la “duchessa” Gladys e il suo cavallo nero Caliban avrebbero in quella che subito pare una scuola clandestina d’equitazione, ma che si rivelerà uno strano rito paganeggiante e necromantico, “la cavalcata” appunto: di notte, nella campagna intorno a Palermo, in un’antica chiesa sconsacrata, “uomini e donne alla rinfusa […] come se avessero addosso l’argento vivo dell’inquietudine […] tutti a piedi nudi” si riuniscono davanti al fuoco di un enorme braciere e, tra “qualche scoppio di risa isteriche e la cadenza martellata di un tamburello, spezzata a tratti da un lungo trillo femminile, acutissimo, gorgheggiante”, provocano su se stessi uno stato di trance fino a perdere il contatto con la realtà e, in questo stato di coscienza alterato, montano i loro destrieri e cavalcano furiosamente nella campagna credendo, “per arte satanica, di superare immani distanze in brevissimo spazio di tempo e di luogo perseguendo un fantasma”. Il fantasma sarebbe, secondo un’antica leggenda (probabilmente creataad hocdall’autore,assemblandomolti riferimenti ad autentici personaggi, testi ed eresie gnostico-cristiane dell’età tardoantica), quello di Erodiade, cognata e concubina del re Erode Antipa, che fece decapitare Giovanni Battista. La donna fantasma, quasi in un contrappasso dantesco, appare decapitata in sella a un cavallo spettrale, che con i denti regge per i capelli la sua testa “urlante nelle tenebre”. Si scoprirà soltanto alla fine che la duchessa Gladys, assidua e fervente frequentatrice della cavalcata notturna, sarà così assorbita dal rito malefico da prendere il posto dell’amazzone fantasma e replicarne l’infernale destino: il suo cadavere verrà ritrovato straziato e decapitato, e nella bocca del suo cavallo Caliban (anche lui morto) si troveranno ciocche di capelli biondi della sua padrona; ma finché la sua orribile fine non viene scoperta, la duchessa sembra misteriosamente scomparsa da Palermo. Tra coloro che seguono gli indizi, le voci e le informazioni sul caso, c’è il commissario di polizia Pellegrino Gullifà, che, incaricato di indagare sul mistero delle cavalcate notturne, come molti altri palermitani crede che la dama sia fuggita all’estero vestita da suora di carità insieme al suo amante ammalato. Questo escamotage salva in parte la reputazione di Gladys agli occhi e alle orecchie della gente, e attenua il risentimento verso di lei nel marito, l’ingegnere Teodoro Lascaris.
Una personalità simile, col medesimo cognome e con un’analoga vicenda matrimoniale, fu colui che, quasi involontariamente, “battezzò” il palazzo torinese oggi sede del Consiglio Regionale: il marchese Giovanni Agostino Lascaris di Ventimiglia (1776-1838), discendente di una casata che “vantava antenati tra gli imperatori di Bisanzio”, precisamente Teodoro II Lascaris (1221-1258), con il quale la sua famiglia d’origine s’era imparentata mediante il matrimonio di una delle sue figlie con il conte Pietro Guglielmo di Ventimiglia, “associando così per sempre il nome ligure a quello greco” come ricorda Pier Luigi Berbotto (Palazzo Lascaris, inserto di “Bell’Italia” n. 174, ottobre 2000). Agostino Lascaris entrò in possesso del palazzo grazie al matrimonio con l’erede proprietaria, Cristina Giuseppa Marianna Carron marchesa di San Tommaso, detta Giuseppina (1786-1841) la cui famiglia l’aveva acquistato nel 1720.
Secondo gli storici dell’arte Arabella Cifani e Franco Monetti, autori di uno studio sulla storia di Palazzo Lascaris, il marchese era “persona di grande ingegno, dedita a importanti opere scientifiche e sociali”, ma nascondeva “un