Il Cari della collina torinese tra passato e futuro
di Giovanni Andriolo
Scivola in bocca morbido, è dolce, ricorda la fragolina di bosco; ma sfodera ben presto la sua vena più spigolosa, piacevolmente acidula e le bollicine che pizzicano il palato. È frizzantino e amabile come il moscato d’Asti, ma è rosso. È rosso come la Malvasia di Castelnuovo Don Bosco, ma è meno dolce.
È prodotto sulla collina torinese e sulle colline tra Marentino e Andezeno, è un vino antico. Nei secoli lo hanno offerto alle coppie di giovani sposi e ai re, lo hanno chiamato Cario, Pelaverga grosso,Vin ciularin.
Oggi si chiama Collina Torinese Cari o Pelaverga ed è un vino venduto in poche bottiglie da due sole cantine che racimolano le sue rare uve di Pelaverga a bacca grande in pochi comuni sulla collina torinese, tra le province di Torino e Asti.
Ne parla nel ‘600 Giovanni Battista Croce, un “gioielliere”milanese al servizio del duca Emanuele Filiberto di Savoia che ama sperimentare tecniche enologiche e agricole innovative nella sue vigne in Val San Martino, Val Salice, Candia. Si tratta di un vino, quello della collina dell’epoca, di bassa gradazione e di breve durata, consumato in grandi quantità. Offre maggiori garanzie igieniche rispetto all’acqua e costituisce con i suoi zuccheri un’importante fonte di nutrimento per le popolazioni locali, impegnate in attività lavorative spossanti nei campi.
L’orafo Croce pubblica nel 1606 un volume sui vini della “montagna di Torino” e sulle tecniche di produzione. Parlando del Cari, racconta che “è uva grande: ha grani grossi ben coloriti, la scorza dura, la rappa rossa, è dolce da mangiare: e fa buoni vini, e delicati”. Una descrizione che non lascia dubbi: si tratta di un grappolo unico, una varietà di un vitigno tutto piemontese che, oggi come un tempo, si produce in diverse zone del Piemonte. Il Pelaverga.
Introdotto dai monaci di Pagno nel Saluzzese fin dall’ottavo secolo, il Pelaverga è citato in documenti vaticani che raccontano come all’inizio del 1500 papa Giulio II ne fosse rifornito ogni anno da Margherita di Foix, moglie del marchese di Saluzzo Ludovico II. Secondo una tradizione diffusa, Sebastiano Valfré avrebbe portato alcune barbatelle di Pelaverga nel suo paese natale Verduno, oggi nella Langa cuneese, nel 1629. In realtà alcuni storici obiettano che in documenti ufficiali di Verduno del ‘400 si parlasse già di uve simili al Pelaverga. In ogni caso, oggi il Verduno Pelaverga è una delle espressioni più note di questo vitigno.
Le moderne tecniche di analisi stabiliscono che il Pelaverga di Verduno possiede caratteri genetici autonomi rispetto a quello del Saluzzese e della collina torinese. La differenza principale sta nell’acino, più piccolo in quello di Verduno, grande in quello saluzzese e torinese, proprio come lo descrive il “gioielliere” Croce. Che nel suo volume spiega come vinificare il Cari mescolandolo ad altri vitigni del tempo, per produrre il vino detto di Melon: lasciare le uve in un tino per due o tre giorni, per poi iniziare a pigiare (“pistare”); riempire lo stesso tino del mosto così ottenuto e lasciarlo fermentare (“bollire”) per sei, sette giorni, prima di “invasare”. Il vino “riuscirà di bel colore, potente, e stomacale” e potrà essere bevuto da maggio fino all’autunno.
Un vino diverso da quello prodotto un paio di secoli più tardi dal re Carlo Alberto di Savoia, che nel 1838 acquista il castello di Verduno per farne un’azienda vinicola e si appassiona al vino secco ottenuto dal Pelaverga piccolo per le sue note speziate, di pepe bianco. A corte si ritiene questo vino afrodisiaco, ma anche nella collina torinese il Cari – pur essendo un vino dolce e leggero, diverso dal secco e speziato Pelaverga di Verduno – viene chiamato scherzosamente vin ciularine offerto alle coppie di giovani sposi.
Le teorie sulla causa di questa fama del Cari Pelaverga – che, disdetta, la moderna scienza confuta – sono varie: c’è chi sostiene che il profumo speziato del vino e il suo carattere zuccherino avrebbero creato soprattutto alla corte di Carlo Alberto questa suggestione in chiave erotica. Aiutata sicuramente dal nome ambiguo, che un filone più serioso collega tuttavia al latino pellis virga (lo dicevo all’inizio, è un vino antico), in riferimento alla tecnica di pelatura dei rami della vite per aiutare la maturazione.
Il nome Pelaverga deriva da “Per la Verga”, mi racconta Luca Balbiano, presidente del Consorzio Freisa di Chieri e Collina Torinese e discendente di una delle due cantine – l’azienda vitivinicola Balbiano – rimaste a produrre e vendere vino Cari in purezza. La verga– o vera – era la fede nuziale; tuttavia, la fantasia popolare e l’ambiguità del termine avrebbero sviato il significato del nome da vino in dono per gli sposi a vino per affrontare la prima notte di nozze.
Afrodisiaco o no, il Cari è stato per secoli una sorta di prezzemolo dell’enologia della collina torinese. Se Croce ne suggeriva l’assemblaggio con altri vitigni per creare un vino “potente e stomacale”, le pratiche successive della collina torinese hanno utilizzato il Cari sia come uva da tavola, mangiato poiché dotato di acini grossi, sia come complementare nella produzione del vino Freisa tanto diffuso anche oggi nella collina torinese. Il Cari era piantato, e continua ad esserlo, in rari filari sparsi tra quelli più numerosi di Freisa, e l’uva veniva raccolta e vinificata insieme a quella della Freisa. Il suo ruolo però era tutt’altro che marginale: gli zuccheri presenti nei suoi grossi acini aiutavano la fermentazione spontanea della Freisa senza alterarne il sapore.
È forse questo legame con la produzione della Freisa che ha permesso al Cari di sopravvivere, seppure a macchia di leopardo tra i filari di altri vitigni, fino a oggi. O meglio, fino al 1999, quando il riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata lo ha rinominato Collina Torinese Cari o Pelaverga e ha spinto alla produzione di questo vino in purezza, dandogli una sua identità distinta.
Si tratta comunque di una produzione limitata a 4-5000 bottiglie all’anno, prodotte per la commercializzazione soltanto dalle cantine Balbiano di Andezeno e Terre dei Santi di Castelnuovo Don Bosco.
Il Cari della collina torinese è un vitigno delicato: l’acino è di grande dimensione, ma la buccia è sottile, si rompe facilmente e attira muffe, le piante sono soggette a malattie. È un’uva che richiede molta cura e di cui è difficile trovare barbatelle per costituire nuovi impianti.
L’esportazione del Cari all’estero? “Impensabile, non ne abbiamo abbastanza!”, scherza Luca Balbiano. Che insieme alla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte nel 2003 ha riattivato l’attività produttiva di uva e vino nei vigneti della Vigna della Regina che sovrasta Torino. Sebbene la superficie del vigneto reimpiantato superi di poco il mezzo ettaro, la Vigna della Regina è uno dei tre esempi in Europa – insieme a quelli di Parigi e Vienna – di vigneto urbano. Un vigneto in cui ha trovato posto, in poche piante, anche il Cari.
Le sua particolarità, tuttavia, non si limitano alla fama di vino dell’amore e alla scarsità di uve. Le caratteristiche più importanti sono quelle organolettiche. Il Cari infatti è un vino leggermente dolce, amabile, frizzantino, di bassa gradazione alcolica (5-6%), che si inserisce nel panorama dei più diffusi vini aromatici piemontesi come il Moscato d’Asti, le Malvasie di Castelnuovo Don Bosco e di Casorzo, il Brachetto. Si distingue però da questi per la quantità di zuccheri nettamente inferiore e quindi per il suo impatto molto più delicato al naso e in bocca, meno dolce e fruttato, più orientato verso profumi di fiori freschi. Per questo motivo è un vino da dessert ricercato dai pasticceri, che lo servono con torcetti e pasticceria secca senza rischiare che l’abbinamento diventi nel complesso stucchevole.
Personalmente, lo vorrei assaggiare insieme a una toma piemontese non troppo stagionata, ma Luca Balbiano mi scatena una tempesta di acquolina in bocca: “Provatene un bicchiere nella macedonia di fragole senza zucchero: è una droga legalizzata!”