Capolavori di maiolica a Palazzo Madama fino al 14 ottobre
di Lucilla Cremoni
Se non fossimo a Torino, e quindi gravati da quella tara genetica che è la proverbiale “sobrietà sabauda” – e anche da una comunicazione la cui efficacia non è certo favorita dalla scarsità di fondi, se non di convinzione – questa mostra sarebbe da fanfara. Non la tipica “blockbuster” – ché per quelle ci vogliono i Soliti Nomi, quelli che suonano familiari anche anche agli analfabeti funzionali e agli zotici da selfie davanti a una Grande Jatteo a un Dejeuner – ma sempre una mostra di quelle che fanno epoca, e contemporaneamente costruiscono Cultura.
La mostra s’intitola L’Italia del Rinascimento. Lo splendore della maiolica, è allestita nella Sala del Senato di Palazzo Madama fino al 14 ottobre ed è un’opportunità unica per vedere tutti assieme duecento pezzi prodotti nelle principali manifatture italiane fra il XV e il XVI secolo e provenienti da collezioni private e musei di ogni parte del mondo. Si tratta di capolavori scelti da Timothy Wilson, che cura la mostra assieme a Cristina Maritano (conservatore di Palazzo Madama per le arti decorative) ed è il massimo esperto mondiale di maiolica rinascimentale oltre che conservatore onorario dell’Ashmolean Museum di Oxford e curatore dei cataloghi delle raccolte del British Museum di Londra, del Metropolitan Museum di New York, della National Gallery di Victoria in Australia oltre che dell’Ashmolean stesso.
La maiolica non è, come alcuni sembrano credere, una “parente povera” della porcellana, ma un’arte antichissima fra i cui antenati si annovera la tecnica dell’invetriatura, che gli Egizi avevano sviluppato e portato a eccellenti risultati, e che poi in area persiana, arabo-islamica e bizantina si evolve in suppellettili, piastrelle e rivestimenti raffinatissimi e caratterizzati da decorazioni di alto livello artistico. La conquista araba
della Spagna la introduce in Europa, dove si diffonde, si perfeziona con innovazioni tecniche e influenza in modo significativo le tradizioni locali. In Italia, la maiolica moresca interagisce mirabilmente con la ceramica che già aveva dei centri di produzione importanti soprattutto nelle regioni centro-settentrionali: Emilia, Marche, Toscana, Umbria. Il risultato sono le tecniche, la lucentezza, i colori sfavillanti della tradizione moresco-ispanica applicati a stili e temi locali, da quelli religiosi agli echi orientaleggianti.
In Italia, in particolare, si inventa l’istoriato, cioè la raffigurazione di storie sulla ceramica bianca, e questo apre infinite possibilità espressivei. Il tutto dipinto su piatti e oggetti d’uso, come calamai, saliere e vario vasellame, fatti tanto per essere usati quanto per essere esposti sulle credenze. Alcune città del centro Italia – particolarmente Deruta, Faenza, Gubbio, Pesaro, Urbino, ma pure Venezia – diventano celebri per la loro produzione fin dal XV secolo. Artisti come Nicola da Urbino, Domenigo da Venezia o Francesco XantoAvelli sono per la maiolica quello che i Raffaello o Piero della Francersca sono per la pittura.
Le maioliche dipinte da grandi artigiani-artisti sono beni preziosi, che oltretutto hanno la caratteristica di mantenere nel tempo inalterata la vividezza dei colori. Perciò sono ostentate come status symbol nelle dimore signorili, conservate con cura, date in dote, trasmesse di generazione in generazione e ambite dai collezionisti. Ed è anche per questo che ne sono giunte fino a noi moltissime testimonianze.
La mostra inizia nella Camera delle Guardie dove le maioliche sono collocate in una vetrina che diventa una credenza virtuale, ad evocare l’uso – non del tutto scomparso – di riporvi-esporvi il “servizio buono”.
Il resto della mostra prosegue nella Sala del Senato con un percorso a chiocciola che è cronologico, tematico e geografico e tocca i topoi – religiosi, profani, amorosi, celebrativi, araldici – rappresentati, i principali luoghi di produzione, gli artisti di spicco e le epoche di produzione.
Fin dalla metà del Duecento diversi centri, principalmente nell’Italia centro-settentrionale, producevano la cosiddetta “maiolica arcaica”. Si tratta principalmente di tazze e boccali decorati con uno smalto porpora-marrone (ottenuto col manganese) e verde (rame). Nel tardo Trecento e primo Quattrocento si aggiungono altri colori fra cui un blu a base di cobalto importato. Uno dei risultati, di produzione principalmente toscana, è la “zaffera a rilievo” (l’assonanza non va collegata allo zafferano, ma allo zaffiro), in cui la decorazione blu cobalto su sfondo bianco si gonfia in cottura producendo appunto l’effetto di rilievo. È una delle prime ceramiche dell’era volgare a riportare il marchio del fabbricante, e anche ad essere collezionata, motivo per cui ne sono pervenuti molti esemplari non emersi da scavo archeologico ma tramandati nel tempo.
Nella seconda metà del Quattrocento città quali Pesaro, Faenza, Deruta e Montelupo si affermano per l’alta qualità delle produzioni conquistando mercati nazionali e internazionali. Questo è frutto di un’evoluzione tecnica che consente di allargare la gamma di colori, forme e decorazioni, e che a sua volta si deve all’influenza islamica e orientale, in particolare alle maioliche a lustro prodotte da ceramisti musulmani a Valencia e massicciamente importate in Italia, ai quali si aggiungono motivi dei tessuti e suppellettili metalliche provenienti dall’impero ottomano.
Deruta può contare sul Tevere, fonte di buona argilla e via di comunicazione. Produce maiolica fin dal Duecento, ma solo a metà del Quattrocento diventa il principale centro regionale. La sua specialità è il lustro metallico, una tecnica di origine islamica che Deruta è la prima in Italia non a padroneggiare ma a produrre su vasta scala. Sono tipici di di Deruta grandi piatti fondi, predisposti con fori per poter essere appesi, e i cui soggetti frequenti sono motivi religiosi, araldici e le belle donne, spesso accompagnati da motti edificanti.
Faenza può vantare oltre settecento anni di tradizione. Nel 1486 l’ambasciatore ferrarese a Budapest consiglia alla sua duchessa di regalare delle ceramiche faentine a Beatrice, regina di Ungheria nata a Napoli, la quale “se ne farà più festa che se le fusseno darzento”. Di produzione faentina anche uno dei massimi capolavori della maolica rinascimentale: le piastrelle dipinte attorno al 1487 da Pietro Andrea per il pavimento della Cappella Vaselli in San Petronio a Bologna.
Attorno al 1500 nasce l’istoriato, cioè la costruzione di una narrazione dipinta su tutta la superficie dell’oggetto, e Faenza (assieme a Pesaro, Siena, Cafaggiolo e Deruta) ne è centro di irradiazione, grazie a botteghe come quelle della famiglia Paterni (“Casa Pirota”), ai fratelli Piero e Paolo Bergantini e alla famiglia Manara.
Attorno al 1540 Virgiliotto Calamelli e altri artigiani faentini inventano il famoso “bianco faentino”: uno smalto bianco spesso decorato in stile compendiario (fatto con rapide pennellate leggere). Vasari descrive le ceramiche faentine come “bianchissime, & con poche pitture e quelle nel mezzo, o intorno, ma vaghe, e gentili assai”. Il successo del “bianco di Faenza” è tale che il toponimo, o la sua francesizzazione faïence, diventa sinonimo di ceramica smaltata in tutta Europa.
A Venezia la produzione di pregio inizia solo attorno al 1506, quando il marchigiano Jacomo da Pesaro vi si stabilisce, ma si afferma rapidamente, tanto che nel 1520 Alfonso I d’Este esige che i vasi per la spezieria di corte siano prodotti a Venezia, e Tiziano si incarica di controllare e garantire la qualità del lavoro. Jacomo è il capostipite di una dinastia illustre proseguita dai suoi generi Francesco da Castel Durante e Domenego da Venezia.
Sulla terraferma, a Padova, opera Nicola “dai Putti” (pare per via del gran numero di figli), la cui produzione è attestata in mostra da una crespina.
La mostra propone i lavori dei grandi maestri rinascimentali della maiolica, a comincaire da Nicola da Urbino (vero nome Nicola di Gabriele Sbraghe), considerato il Raffaello della pittura su maiolica. Menzionato per la prima volta negli archivi di Urbino nel 1520, dieci anni dopo è un personaggio illustre in città, che con altri quattro proprietari di bottega si schiera contro Francesco Xanto Avelli e altri artisti che si sono coalizzati per ottenere un aumento della paga. Lavora per i duchi di Ferrara e Mantova e a Palazzo Correr a Venezia è conservata una serie di piatti sui quali è evidente l’influenza del pittore urbinate Timoteo Viti (1469/1523). L’operadiNicolaèrappresentata in mostra da cinque suoi lavori firmati e appartenenti alle collezioni dell’Ermitage, British Museum, Bargello e Louvre.
Francesco Xanto Avelli (Xanto è la versione più classicheggiante del suo vero cognome, Santini) è uno degli artisti più prolifici del suo tempo – sono inventariate oltre 420 opere ancora esistenti con la sua firma. Forse originario di Rovigo, si trasferisce a Urbino attorno al 1530 e i documenti dell’epoca lo descrivono come magister, anche se non risulta una sua bottega. Descritto come “eccezionale pittore di vasi di ceramica” è anche figura poliedrica di letterato e poeta, insomma un autentico uomo del Rinascimento, come lo definiva una mostra che gli fu dedicata nel 2007 a Londra (Xanto: Pottery-
painter, Poet, Man of the Renaissance, Wallace Collection gennaio-aprile 2007). È lui a diffondere la prassi di aggiungere alle pitture frasi e iscrizioni – originali o tratte da opere letterarie – in prosa o in versi. Elabora anche una tecnica di riproduzione e adattamento di figure da incisioni, principalmente di scuola raffaellesca, per creare composizioni complesse con colori cangianti per animare e aumentare l’effetto.
IlMaestro Giorgio di Gubbio (Giorgio di Pietro, 1470-1555) è probabilmenteil più celebre, di certo il più raffinato degli artisti della maiolica a lustro, coi suoi contrasti di rosso e oro. Lombardo, a diciott’anni circa si trasferisce a Gubbio dove il fratello maggiore Salimbene lavora nella bottega di Giacomo Paolucci, alla morte del quale i due fratelli rilevano la bottega. Una bolla di papa Leone X del 1519, che gli accorda l’esenzione fiscale, descrive il pittore (che nel frattempo ha adottato il cognome Andreoli) come “eccellente Maestro nell’arte della maiolica, poiché in questa arte tu non hai eguali e tanto maestro in codesta città non esiste”, affermando che “vasi da te fatti, inviati a molte nazioni” recano “lucro e utilità” aGubbio.
La decorazione presenta alcuni temi ricorrenti. Fra questi è particolarmente prominente quello detto delle “Belle donne”. Sui manufatti sono raffigurate giovani donne, solitamente di profilo come nei medaglioni, spesso accompagnate da appellativi come“bella”, “diva”, “unica”, “graziosa”. Questi articoli erano diffusi fin dal Trecento, prodotti in pezzi singoli da donare ad amanti e fidanzate, oppure in interi servizi a tema, come le serie di stampe coeve. Non si tratta di veri ritratti ma di raffigurazioni generiche, il cui potenziale commerciale è decantato anche in un poema scritto nel 1557 da Andreano da Concole di Todi. A volte alle belle donne corrispondono dei bei giovani., mentre altre serie o interi servizi sono dedicati a figure mitologiche o letterarie.
Le vicende più rappresentate sono le Storie da Ovidio,che danno agli artisti anche un’opportunità di inserire molti nudi femminili. Il capolavoro ovidiano era all’epoca molto in auge a seguito della stampa, avvenuta a Venezia nel 1497, della prima versione illustrata e tradotta – o meglio, riassunta e parafrasata – in italiano (Ovidio Methamorphoseos Vulgare).Letavole illustrate di quella prima edizione ( e poi di altre successive, sempre più semplificate) sono molto usate dai maiolicari, che ne inseriscono diverse in sequenza su uno stesso piatto e costruendo delle storie illustrate. Potevano esservi aggiunte didascalie o frasi moraleggianti in modo da dare una patina edificante a immagini salaci.
Il motivo per cui i grandi pittori di maiolica restano sempre nella terra di confine tra arte e artigianato ha certo a che fare con la produzione di oggetti d’uso, ancorché di altissima fascia, autentici status symbol. Ma si collega soprattutto al fatto che, pur possedendo eccezionali competenze tecniche e artistiche, queste non si traducevano in originalità creativa: per quanto dotato fosse il pittore, il suo talento si esprimeva soprattutto nella riproduzione di altri lavori, come appunto le tavole illustrate delle Metamorfosio della Bibbia,incisioni dei grandi pittori come Raffaello eGiulio Romano, affreschi eccetera.
Un importante settore produttivo per la maiolica è, per molti secoli, quello del vasellame da farmacia, che ha scopo pratico ed estetico, sia quando si tratta di botteghe di speziale, sia quando la farmacia è collegata a istituzioni ospedaliere, che acquistano grandi quantità di manufatti: nel 1430, ad esempio, l’ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze commissiona alla botteda di Giunta di Tugio oltre mille vasi. Manufatti di ogni forma e dimensione, per ogni sorta di funzione – dagli albarelli alle brocche, dalle ciotole ai vasi panciuti coi manici e così via – in genere senza coperchio (erano chiusi con un panno o carta oleata legati con uno spago sotto il bordo) e spesso con una scritta indicante il contenuto.
Chiudono la mostra alcuni pezzi a dir poco spettacolari: una coppia di albarelli di Domenego da Venezia decorati sul tema degli elementi (forse rimanenza di una serie di quattro),un grande rinfrescatoio prodotto a Urbino e la brocca in porcellana medicea di Palazzo Madama, eccezionale esemplare della prima imitazione europea della porcellana cinese, creato da maiolicari di Urbino che lavoravano a Firenze alla corte di Francesco I de’ Medici.
Alla mostra si affiancano diverse iniziative collaterali, come un ciclo di conferenze, iniziato il 27 giugno con la presentazione della mostra Maioliche a Varallo: la collezione Franchi dialoga con altri Musei (Varallo, Palazzo dei Musei, 22 giugno – 22 settembre) e che proseguirà a settembre e ottobre. Dal 16 al 18settembre si svolgerà inoltre il convegno internazionale Il collezionismo fa grandi i musei che si terrà nelle sedi di Palazzo Madama (16 settembre) e del Palazzo dei Musei di Varallo Sesia (17 e 18 settembre).
Palazzo Madama – Piazza Castello, Torino
Orario: da lunedì a domenica ore 10-18,30. Chiuso il martedì. La biglietteria chiude un’ora prima
Biglietti. Intero 8 euro, ridotto 6 euro
Info: www.palazzomadamatorino.it