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Capa in Color. Fino al 31 gennaio alle Sale Chiablese le immagini a colori del più iconico dei fotografi – di Irene Sibona

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Fino al 31 gennaio 2021 alle Sale Chiablese dei Musei Reali per la prima volta in Italia 150 immagini a colori del più iconico dei fotografi

di Irene Sibona

Forse è vero che tempi eccezionali generano persone eccezionali, certo è che quella di Robert Capa è stata una vita leggendaria quanto le sue fotografie, breve e intensa come quella di un personaggio di Hemingway, del quale peraltro fu collega e amico.
Era nato nell’ottobre 1813 e si chiamava Endre Ernö Friedmann, figlio di un sarto ebreo di Pest. Un’infanzia tranquilla per un bambino e poi ragazzo normalissimo, socievole e allegro, che però si mette nei guai ai tempi del liceo perché bazzica degli attivisti politici, è accusato di comunismo, arrestato e picchiato dalla polizia. Viene rilasciato grazie all’intervento di uno dei ricchi e influenti clienti del padre, ma a condizione che una volta finita la scuola lasci l’Ungheria. Così a 17 anni va a Berlino e si iscrive alla Deutsche Hochschule für Politik.
La sua passione è il giornalismo ma presto, come dichiarerà più avanti “le sostanze dei miei genitori vennero meno, e decisi di diventare un fotografo, che era la cosa più prossima al giornalismo per chi non aveva una padronanza della lingua”. Va a lavorare all’agenzia Dephot e in pochissimo tempo impara il mestiere, tanto che già nel 1932 il direttore dell’agenzia, Simon Guttmann, gli affida il servizio di una conferenza di Trotzky a Copenhagen, e per la prima volta il suo nome compare su una rivista. Gli incarichi si moltiplicano ma l’ascesa del nazismo lo costringe a lasciare la Germania e, dopo una breve visita ai genitori in Ungheria, a rifugiarsi a Parigi. Non sa il francese e si arrabatta per vivere, tanto che è più volte costretto a impegnare la Leica. Le cose cominciano ad andare meglio quando conosce David “Chim” Seymour, e tramite lui Henry Cartier-Bresson, coi quali inizia un sodalizio personale e professionale che durerà per tutta la vita, ma soprattutto quando Guttmann, a sua volta espatriato in Francia, lo manda in Spagna a fotografare personaggi della cultura e dello sport.
Nel frattempo Capa ha incontrato Gerda Pohorylles, lei pure transfuga dalla Germania: sono una coppia solidissima di vita e di lavoro. Gerda lavora in un’agenzia fotografica e promuove il lavoro di Endre, per il quale inventa una nuova identità: d’ora in avanti sarà il celebre fotografo americano Bob Capa, le cui fotografie costano il triplo di quelle degli altri fotografi. Funziona, ma ad un certo punto l’inganno è scoperto e Friedmann cambia sul serio il proprio nome in Robert Capa. Visto che c’è, anche lei si cambia il nome e diventa Gerda Taro, “la ragazza con la Leica”.
Il resto, come si suol dire, è storia, per lo meno storia della fotografia: Robert e Gerda vanno diverse volte in Spagna a documentare la guerra civile, assieme o separatamente, e proprio in una di queste occasioni Gerda muore, investita da un carro armato. Robert non supererà mai la perdita della sua compagna: nelle parole di Cartier-Bresson “è come se un velo fosse caduto su Capa. Quando si sollevò, ne uscì un uomo che sembrava completamente diverso: cinico, opportunista, talvolta nichilista, timoroso dei legami, col cuore spezzato per sempre”.
Le sue foto della Spagna lo rendono celebre e richiestissimo: a settembre 1937 va per la prima volta negli Stati Uniti, dove nel frattempo sono emigrati la madre e il fratello Cornell, anche’egli fotografo, e firma un contratto con la rivista Life. All’inizio del 1938 è in Cina, dove rimane sei mesi a documentare la guerra sino-giapponese e realizza i primi scatti a colori, poi torna in Spagna a seguire la presa di potere di Franco. Proprio in quell’occasione fa amicizia con Ernest Hemingway, col quale lavorerà ancora in futuro. Ormai acclamato come “il più grande fotografo di guerra del mondo”, Capa si trasferisce negli Stati Uniti allo scoppio della guerra.
Nel 1940 è in Messico, dove assiste alla cremazione di Trotzky, ma presto torna in Europa, nel cuore dell’azione bellica: è sul fronte nordafricano nel 1943, poi segue lo sbarco alleato in Italia, ma soprattutto è con il primo gruppo di truppe americane nello sbarco in Normandia il 6 giugno 1944, è paracadutato al seguito delle truppe americane alla presa di
Lipsia, documenta la liberazione di Parigi assieme a Hemingway e la controffensiva nelle Ardenne.
Alla fine della guerra è una celebrità: prende la cittadinanza americana, frequenta artisti, scrittori e divi del cinema, ha una lunga relazione con Ingrid Bergman e per un certo periodo si trasferisce a Hollywood dove scrive Slightly Out of Focus: The Legendary Photojournalist’s Illustrated Memoir of World War II, dalla quale spera di trarre una sceneggiatura.
Non è un mondo che fa per lui. Torna a Parigi e nel 1947 fonda l’agenzia Magnum Photos assieme ai colleghi e amici Henri Cartier-Bresson, David Seymour, George Rodger e William Vandivert. Lo scopo è contrastare lo sfruttamento dei fotografi freelance da parte delle grandi riviste. L’agenzia è una cooperativa di fotografi che assicura ai suoi membri il mantenimento dei diritti d’autore sulle immagini: come dice lo stesso Capa, “Perché farci sfruttare da altri? Sfruttiamoci da soli”.
Negli anni successivi alla guerra documenta la proclamazione d’indipendenza di Israele, la successiva guerra coi paesi arabi e i campi profughi, e viaggia in Unione Sovietica con John Steinbeck. Fra il 1950 e il 1953 dirige la Magnum a Parigi e fa vita mondana, frequentando e fotografando intellettuali, registi, aristocrazia. Poi finisce nei guai perché negli Stati Uniti impazza il maccartismo e l’FBI, che lo tiene d’occhio fin dagli anni Trenta, lo sospetta di simpatie comuniste e nel ‘53 gli ritira il passaporto per alcuni mesi.
Nel 1954 va in Giappone per conto della Mainichi Press, che gli dà completa libertà creativa a condizione che usi attrezzatura di fabbricazione giapponese, e qualche settimana dopo la rivista Life gli chiede di sostituire il fotografo che sta seguendo la guerra di Indocina. Capa si trasferisce quindi in Vietnam per documentare aspetti della guerra, e proprio mentre sta seguendo un convoglio di soldati francesi muore, ucciso da una mina antiuomo.
Sono stati versati i proverbiali fiumi di inchiostro sull’importanza di Capa come capostipite del fotogiornalismo moderno, sulla sua capacità di portare il pubblico letteralmente all’interno del conflitto mostrandogliene gli aspetti più crudi ma mai a scapito della dignità del soggetto. E nell’immaginario comune, Capa è associato alla fotografia in bianco e nero, di cui ha firmato alcuni fra i maggiori capolavori.
Decisamente meno nota è la sua frequentazione e sperimentazione col colore. “Spediscimi immediatamente 12 rulli di Kodachrome con tutte le istruzioni su come usarli, filtri, etc… in breve, tutto ciò che dovrei sapere, perché ho un’idea per Life” scriveva a un collaboratore nel 1938.

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Proprio a questo aspetto del lavoro di Capa è dedicata la mostra che, inaugurata il 26 settembre, sarà visitabile fino al 31 gennaio 2021 alle Sale Chiablese dei Musei Reali e che porta per la prima volta in Italia circa 150 immagini a colori, oltre a lettere personali e appunti dalle riviste su cui furono pubblicate. L’esposizione è nata da un progetto di Cynthia Young, curatrice della collezione di Robert Capa al Centro internazionale di fotografia di New York, e illustra il particolare approccio dell’autore verso i nuovi mezzi fotografici.
Nel 1941 Capa fotografa a colori Ernest Hemingway nella sua casa a Sun Valley, in Idaho, e anche nei suoi servizi durante la seconda guerra mondiale figurano immagini a colori. Ma la maggior parte degli scatti a colori è successiva, e fa parte soprattutto dei servizi realizzati per riviste come le americane “Holiday” e “Ladies’ Home Journal”, il britannico “Illustrated” e l’italiana “Epoca” (Italia). Le immagini illustrano la vita quotidiana americana e di altri Paesi, inclusa l’Unione Sovietica, ma includono anche ritratti di celebrità e luoghi esclusivi, servizi di moda e foto scattate su set di film.
La mostra ai Musei Reali mostra anche l’evoluzione tecnica e stilistica di Capa, il suo interesse per le potenzialità espressive che l’evoluzione del mezzo tecnico gli forniva: non a caso, le sue ultime immagini, quelle della guerra di Indocina, sono considerate precorritrici dei reportage che negli anni Sessanta documentarono la guerra in Vietnam.
Orario: Tutti i giorni ore 10-19; lunedì chiuso, giovedì apertura prolungata fino alle 21 (ultimo ingresso un’ora prima della chiusura)
Biglietti: Intero € 13, ridotto € 10 (over 65, insegnanti, giornalisti non accreditati, tessere convenzionate); ridotto ragazzi € 5 (1118 anni); gratuito per aventi diritto

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