Enter your email Address

Il più piemontese degli ortaggi – di Manlio La Rotonda

0

Parente povero delle patate, nato nelle praterie d’America, il topinambour ha un sapore unico ed è un ingrediente versatile e raffinato

Manlio La Rotonda 

No, non ne abbiamo di Jerusalem Artichoke – ho risposto così al mio ospite americano, immaginando chissà quali incredibili esotismi dietro ad un Carciofo di Gerusalemme. Roba da americani. I mercati dei contadini, qui, non conoscono nient’altro che non sia stato mangiato almeno dalle altre tre generazioni precedenti. Certo non avremo né Bok choy né Kohlrabi ma perlomeno sono sicuro di cosa si vende e cosa no nell’inverno torinese. Cocciuto, l’americano mi mostra una foto, e senza quel nome improbabile io riconosco il più piemontese degli ortaggi.
topinambour-la-rotondaNascono dal niente, come tutte le infestanti, a infestare di giallo i fossi e gli avanzi dei campi, miseri e belli come i fiori senza pretese. Ne ho raccolti dei mazzi, da bambino. Nella casa di campagna li infilavamo nel vaso dell’ingresso, a spampanarsi lentamente finché altri, da altri fossi, andavano a sostituirli. Il resto non mi interessava. I mazzi mi occupavano i pomeriggi. Poi mi fu accordato il permesso di maneggiare un pelapatate, e il compito sporadico di pelare minuziosamente tutti quei bitorzoli. Guai a gettare le bucce nel giardino! Sarebbero spuntati tutti, di nuovo, ed io fantasticavo un giardino pieno di fiori gialli e una montagna di bitorzoli da pelare.
La mia famiglia è piemontese solo d’adozione. Cresciuti a pane senza sale, per i miei genitori il topinambour era uno sconosciuto. Traslocare significa cambiare una casa, cambiare gli odori, cambiare i sapori. Con il trasloco nuove abitudini hanno insidiato il ripiano della cucina, conquistato i nostri favori. Amici ben più piemontesi di noi ci attaccarono il vezzo, conquistando l’ultimo cromosoma toscano con una bagna cauda. Lentamente ci siamo piemontesizzati anche noi, cucinando acciughe al verde e comprando topinambour. Poi siamo passati ai tortini, ai timballi, rubando malamente dai ristoranti qualche ricetta da replicare a casa. Mia madre ci si è dedicata sempre con poca disinvoltura, nell’usare un qualcosa che in fin dei conti sembrava foresto, con la stessa poca confidenza che si dà allo zenzero. Sarà che si somigliano?
L’ho riscoperto e amato più tardi. Il topinambour ha tra tutte una virtù preziosa: qui in Piemonte, quand’è stagione, non costa niente, e nella mia vita di studente ha salvato ben più di una cena. Da fine autunno in poi, io li aspetto arrivare, la più vera delle verdure di stagione a chilometri zero. I petali lasciano il posto ai tuberi, tutta polpa e niente eleganza. Si mangiano la terra, i topinambour, tra una falange e l’altra. Sono un ingrediente antisociale, che ti costringe ad un buon paio d’ore di lavoro prima della cena, rinviando tutti gli aperitivi in un eccesso di casalinghitudine. Ma non importa, assaporo la loro polpa croccante pensando ai mazzi di fiori. Alle volte ricatto un coinquilino, e, complice una bottiglia di barbera, ci si siede ad un tavolo a grattare parlare e pelare
ancora. Ne vale sempre la pena. Si nasconde un gusto aristocratico, tra la mela e il carciofo, sotto la pelle rugosa. Acidulo e profumato da crudo, diventa dolce e vellutato se cotto. Ha un sapore distinto, così particolare, estraneo a tutto il resto. Tra tutti i sapori che conosco è il più piemontese. Se si potesse dare un morso alla Mole, incorniciata tutti i giorni dalla finestra della mia cucina, mi immagino saprebbe di topinambour. Poco alla volta ho capito che chiedere un topinambour in altre regioni è come chiedere un Jerusalem Artichoke ad un piemontese. C’è sempre un pugliese o un marchigiano a cena che, prima o poi, mettendo la testa nella pentola, non si capacita di cosa stia cuocendo. Nel repertorio della memoria regionale resiste ancora un po’ nelle ricette di una volta, ben nascosto da un nome in dialetto ormai in disuso. Sarà che cresce senza fatica e senza dar nell’occhio che pare il resto d’Italia se lo sia un po’ dimenticato. Lui che porta anche il sole nel suo nome latino, ufficialmente si chiama Heliantus matuberosus, fratello piccolo e ctonio di un girasole vero. Il Piemonte l’ha più caro e fatto del tutto suo a causa del suo più illustre dirimpettaio, la Francia, da cui ha preso a prestito anche il nome. Alle origini il topinambour era – per davvero – roba da americani. Cresceva indisturbato nelle praterie, una tra le tante erbe spontanee che variavano la dieta dei nativi. Gli europei ne vennero a conoscenza, e mi immagino che quel sapore di carciofo gli ricordava forse un po’ casa.
L’hanno spedito in patria i francesi, assieme ad un carico di altre prelibatezze che abbiamo adottato più facilmente. Il topinambour, poverino, ancor più brigoso ed antisociale delle patate, ce lo siamo dimenticati un po’ alla volta, accolto solo dai fossi. Come ultimo baluardo al topinambour sono rimaste le mani rugose dei contadini piemontesi, al mercato di piazza Madama Cristina. Previdenti, non se ne fanno mancare un pezzettino nei loro orti per la prossima bagna cauda. Mentre contratto le pepite più grandi da portare a casa, li penso di nuovo girasoli, e mi sembra di comprare un po’ di estate. 

Insalata di topinambour all’Alberto
Ingredienti (in indice spannometrico)
Prendere una bottiglia di barbera; un po’ di topinambour quanti siete; un coinquilino volenterosissimo; sei carciofi belli teneri; due mele piemontesissime di varietà antiche tipo, che ne so, Magnana o Runsé, facendosi consigliare dal contadino di fiducia; un po’ di noci fresche; due arance.
Tempo di esecuzione: dipende
Corrompere il coinquilino con la bottiglia di barbera, il che può richiedere un po’ di tempo. Se falliste, la ricetta diventa lunga il doppio ma almeno il vino è tutto vostro. Pulire bene i topinambour, il che vuol dire usare tanta acqua, tanta pazienza, e almeno uno spazzolino dedicato a questo ingrato compito. Con un coltellino o un pelapatate, sbucciarli minuziosamente. Tagliare i topinambour a lamelle e condirli con il succo delle arance, per evitare si ossidino in fretta. Dopodiché sbucciare i carciofi e tenere solo il cuore. Non fate gli spreconi e mettetele da parte, saranno buone la prossima volta. Tagliare il cuore del carciofo a fette sottilissime e metterle con i topinambour. Aggiungere anche la mela, possibilmente non sbucciata, tagliata a fette e infine i gherigli delle noci sgusciate. Condite il tutto con il succo dell’altra arancia sbattuto con sale olio e una punta di aceto di mele. Nel frattempo sarà arrivata un po’ di gente che vi chiederà cos’avete preparato per cena. Rispondetegli pure topinambour. E tanti auguri: il gusto piemontese tende al contagio virale.

Questo articolo ha vinto la IV edizione del Premio Piemonte Mese, sezione Enogastronomia 

 

Comments are closed.

Exit mobile version