Mario Brusa Romagnoli, eroe della Resistenza piemontese
di Mauro Ravarino
La sua lettera ai familiari, davvero commovente, è conservata nel libro Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (Einaudi). Scrisse: “Papà e Mamma, è finita per il vostro figlio Mario, la vita è una piccolezza, il maledetto nemico mi fucila: raccogliete la mia salma e ponetela vicino a mio fratello Filippo. Un bacio a te, Mamma cara, Papà, Melania, Annamaria e zia, a Celso un bacio dal suo caro fratello Mario che dal cielo guiderà il loro destino in salvo da questa vita tremenda. Addio. W l’Italia”. Si firmò Mario-Nando e aggiunse: “Mi sono perduto alle ore 12, alle 12 e 5 non ci sarò più per salutare la vittoria”.
Apparve per la prima volta su “Libero Monferrato”(giornale clandestino della Resistenza), il 21 aprile ’45. Mario Oberdan Brusa Romagnoli è stato insignito medaglia d’argento al valor militare. Anche due dei suoi fratelli morirono in guerra. Uno, Teobaldo, torturato e ammazzato dai nazifascisti e un altro, Filippo, soldato del regio esercito, ferito, dopo una notte all’addiaccio e senza soccorsi spirò per una broncopolmonite. Riposano tutti e tre in una piccola tomba nel cimitero di Villamiroglio, Monferrato casalese.
A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia è interessante ricordare come la Resistenza sia stata considerata, a partire dall’interpretazione di Luigi Salvatorelli, un secondo Risorgimento. Mentre la patria dopo l’8 settembre’43 era divisa e occupata dai tedeschi, alcuni giovani decisero di unirsi e lottare per la sua indipendenza. E nel suo nome morirono. Molti si arruolarono nelle brigate partigiane che sorsero sulle montagne del Piemonte e più tardi sulle colline del Monferrato. Tra la pianura vercellese e le colline del Po operava la “Monferrato”, protagonista con le sue brigate di azioni importanti per la Resistenza piemontese.
“Abbiamo voluto intervistare, spiega Marilena Vittone, che ha raccolto con pazienza per due anni la storia della gente monferrina, chi subì rastrellamenti e incendi, deportazione e fame”. Nel libro è Melania Brusa a raccontare la storia di suo fratello Mario: “Fu scelto, insieme ad altri tre, dal comandante e mandato a Livorno Ferraris per bloccare un treno di soldati tedeschi che transitava lungo la ferrovia Torino-Milano. L’azione di sabotaggio riuscì; furono fatti scendere i militi nazisti. Ma uno, ubriaco, sparò e ferì Mario ad una gamba. I nazisti poterono così disperdersi per la campagna. Mario fu aiutato dai suoi compagni e caricato su un calesse. Si rifugiò in una cascina; qui sarebbe dovuto arrivare un camion partigiano per portarlo all’ospedale di Cocconato.
Una donna fece la spia. I fascisti della “Monterosa” lo catturarono e con lui Francesco Bena di Crescentino, Vittorio Suman di Caresanablot e Giuseppe Gardano di Trino. Facevano parte della Divisione Patria. I quattro partigiani furono condotti al municipio di Livorno Ferraris e presto fucilati. Mario, in realtà, per le leggi di guerra avrebbe potuto salvarsi perché ferito. Invece, nonostante il dolore, tentò di organizzare uno scambio per salvare la vita dei condannati. Ma non andò in porto, e lui volle morire con i suoi compagni. Sorretto da loro, si recò al plotone di esecuzione cantando l’inno d’Italia.
Mario era nato, infatti, a Guardiaregia, vicino a Campobasso. Nel paese gli è stata intitolata una scuola e nel capoluogo molisano una via. Nel 2005, 60° della Liberazione, Mario Brusa, il fratello nato nel dopoguerra al quale fu dato lo stesso nome del partigiano ucciso, (e poi divenuto celebre attore e doppiatore, nonché fondatore della scuola di teatro Sergio Tofano) è tornato in Molise per partecipare alle celebrazioni. “Nella storia di Mario Brusa e della sua famiglia, conclude Marilena Vittone, leggiamo le contraddizioni, le difficoltà ed i lutti provocati dalla guerra e dall’occupazione nazifascista, che aveva segnato il territorio piemontese e anche le più piccole comunità del Monferrato. Gli ideali in cui era cresciuto lo portarono a scegliere di lottare per la liberazione dell’Italia. All’alba del 25 aprile perse la vita. Di Nando mi piace ricordare la sua capacità di scegliere, di impegnarsi e di decidere quando regnava il terrore. Vorrei che questo restasse ai ventenni di oggi”.