L’impianto di Sangano
di Lucilla Cremoni
Il sole obliquo di una tarda mattinata d’autunno esalta la piacevolezza del paesaggio placidamente ondulato nei dintorni di Sangano, dove andiamo a visitare l’impianto di acqua sorgiva della Smat (Società Metropolitana
Entrando nel complesso di Sangano quello che ci sorprende non è tanto l’aspetto vagamente surreale di quei viali d’accesso di ghiaia uniforme e intatta o di quelle aiuole curate con maniacale precisione da mani invisibili (e apparentemente a beneficio di nessuno, perché in quel momento il luogo sembra del tutto deserto). A spiazzarci è vedere la ricerca dell’armonia estetica applicata a un contesto “industriale”. Siamo ormai talmente abituati ad associare l’idea di luogo di produzione di beni e servizi a capannoni ammazza-paesaggio o a palazzoni di vetro e cemento che sembrano farsi vanto della loro triste bruttezza, che facciamo fatica a raccapezzarci delle facciate con rosoni da chiesa romanica delle Ogr di Torino e degli eleganti pilastrini in ghisa che ne scandiscono gli spazi interni, delle linee sinuose della rampa del Lingotto o delle deliziose casette del Villaggio Leumann. Perciò anche queste “case dell’acquedotto”, che hanno l’aspetto di ville signorili e trasformano gli sfiatatoi in leggiadre fontanelle un po’ ci disorientano.
Il ritorno dell’acqua pubblica
L’impianto di Sangano, costruito nel 1860 sopra e attorno alla falda acquifera, è una fra le prime espressioni, in
I Romani, come sappiamo, avevano fatto dell’ingegneria idraulica un’arte (in senso anche letterale, vista la bellezza di quanto resta dei loro acquedotti), ma dopo di loro, il nulla. In Italia, solo la dominazione islamica in Sicilia realizzò una vera rete idrica a scopo irriguo e un acquedotto sotterraneo che raggiungeva Palermo. Poi ci furono opere minori, costruite per rifornire questo o quel monastero o castello, ma venne a mancare del tutto una committenza pubblica per la costruzione di infrastrutture (non solo acquedotti, anche strade e fognature). Del resto, ne erano venute meno le condizioni: i tempi turbolenti e la frammentazione territoriale non incoraggiavano la pianificazione; molte delle cognizioni tecniche e ingegneristiche del mondo antico erano ormai perdute; le terme erano diventate luoghi di prostituzione e malaffare; la cura del corpo e l’igiene personale erano spesso condannate come manifestazioni di vanità e blasfemia.
Perciò, per oltre un millennio si tornò a uno stadio poco più che preistorico. Solo le grandi residenze nobiliari o le fortezze disponevano di cisterne, tutti gli altri attingevano acqua dai pozzi (non molto profondi, perché le tecnologie disponibili non permettevano di scavare o trivellare oltre i 13-15 metri) o direttamente dai corsi d’acqua, con disagi e rischi facilmente immaginabili. Bastava un pozzo contaminato e un intero villaggio poteva ammalarsi; per non parlare di fiumi e torrenti che fungevano da fonte, abbeveratoio, bagno pubblico, lavatoio, cloaca, discarica e sversatoio di liquami di concia o tintoria.
La consapevolezza dei rischi portò all’adozione di una serie di misure di risanamento, come la demolizione dei rioni più degradati e la copertura di canali come la Dora Grossa, vere fogne a cielo aperto. Parallelamente si analizzò l’acqua dei pozzi e i risultati furono allarmanti. Già nel 1832 Maria Cristina di Borbone, vedova di Carlo Felice, aveva commissionato all’ingegnere Ignazio Michela uno studio su come portare a Torino “acqua potabile di sorgente, sempre fresca, sempre pura, sempre abbondante, derivandola direttamente dalle Alpi o da luoghi elevati che poco distassero dalle medesime. L’acqua… doveva arrivare… a tutte le case… ed a tutti i piani delle medesime, liberando così gli abitanti dell’incomodo e della spesa di dover attingere l’acqua da bere da pozzi quasi sempre inquinati…”
La cattedrale dell’acqua
L’impianto di Sangano, di acqua sorgiva, si estende nel sottosuolo a una profondità di oltre dieci metri. Si trova
Ma non facciamoci incantare da queste atmosfere sospese. Qui dentro non c’è nulla di casuale: il contenitore è
Non a caso quest’acqua è stata scelta per dissetare gli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale.
Ma questa è un’altra storia.
Foto di Lucilla Cremoni
Si ringraziano Giorgio Morello e la Smat per la preziosa collaborazion