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Dado Moroni: tutta colpa di Dizzie… – intervista di Nico Ivaldi

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Dado Moroni era un giovane pianista che voleva fare l’avvocato. Fu il grande Gillespie a incoraggiarlo a dedicarsi completamente al jazz

intervista di Nico Ivaldi

Tutta colpa di Dizzy, pare. 
Ma che c’azzecca il mitico Gillespie con Edoardo detto Dado Moroni, pianista jazz italiano tra i più noti e apprezzati nel mondo (ha collaborato tra gli altri con  Chet Baker, Freddie Hubbard, Clark Terry, Billy Cobham, Jimmy Owens)?
dadomoroni-1Era il 1984, avevo ventidue anni”, racconta lo stesso Moroni. “Suonavo già il pianoforte da qualche anno, accompagnavo artisti come Franco Cerri, Gianni Basso, Tullio De Piscopo, Franco Ambrosetti, insomma ero lanciato. Eppure, visto che studiavo giurisprudenza e mi sarebbe piaciuto fare l’avvocato, ero ancora incerto sul mio futuro. Arrivò Gillespie e spazzare gli ultimi dubbi”.
Ad Asti il grande Dizzy, ascoltò con attenzione l’esibizione di quel ragazzo alto e pieno di talento e quando seppe che era destinato a frequentare le aule di tribunali, lo rimproverò aspramente.
Ma tu sei pazzo!” mi disse Gillespie. “Devi fare il musicista. Lascia perdere lo studio e buttati. E mi buttai, dopo aver superato lo shock di aver conosciuto con un mito del jazz, che fino a quel momento avevo visto solo sulle copertine dei dischi”.
Cosa rappresentava per te il grande trombettista americano?
Il jazz allo stato puro. Per me che ascoltavo quasi solo quel genere musicale, lui era paragonabile, che so, ai Rolling Stones, per i quali impazziva mia sorella Monica, appassionata di musica pop e rock”.
Nella famiglia di Dado Moroni, nato a Genova nel 1962 da genitori piemontesi, il jazz si respirava da sempre.
A casa mia era una rarità sentire Celentano o Mina, perché i miei erano e sono tuttora grandi appassionati di jazz. Mia madre suonava pianoforte e fisarmonica, mio papà durante la guerra aveva fatto amicizia con alcuni militari americani i quali, terminato il conflitto, gli spedirono a casa molti dischi jazz.  A due anni ascoltavo Duke Ellington e impazzivo per la voce di Ella Fitzgerald”.
Incontriamo Dado Moroni all’uscita dal Conservatorio di Torino, dove per il secondo anno insegna pianoforte jazz. Lo accompagnano due studenti, con i quali il pianista è intento a scambiare opinioni sulla lezione e a fornire consigli per le esercitazioni.
Dado, quanti di questi ragazzi secondo te sceglieranno di vivere di musica, piuttosto che intraprendere una tranquilla carriera da docente?
Ben pochi dei miei studenti posseggono il fuoco sacro dell’arte, quello che io chiamo, parafrasando Rocky, l’occhio della tigre, grazie al quale il pugile di Philadelphia, dopo essere caduto in disgrazia, ritrovò energia e motivazioni per sfidare il forte rivale russo. Per andare sul palcoscenico devi essere un po’ un buffone, mentre io noto che molti miei allievi sono troppo bene educati musicalmente, sono molto rigidi, non inventano, non variano; magari è solo una questione di tempo, di maturazione. Però io mi ricordo alla loro età di essere stato un po’ un testone e di aver imparato a suonare in maniera non ortodossa”.
A Torino, Dado Moroni ci ritorna sempre molto volentieri.
 “Ci ho suonato fin dai primi anni ’80; allora la città non mi entusiasmava, era bella ma con l’aria decadente. Da quando insegno al Conservatorio ho più tempo per girarla e conoscerla e devo dire che riscoprirla, soprattutto dopo i cambiamenti dovuti dalle Olimpiadi, per me è stata un’esperienza bellissima. Adoro anche la mia Genova, naturalmente, ma lì di sera c’è poco da fare, mentre Torino ha una ricca offerta in campo musicale e culturale, tale da accontentare i palati più difficili”.
Ci spostiamo in un vicino ristorante, dove l’artista genovese in fatto di scelta di vini dimostra una competenza pari a quella musicale. Per un artista come lui, abituato a calcare palcoscenici prestigiosi in tutto il mondo, il ritorno alla cucina italiana, e in particolare a quella piemontese, è sempre gradito.
Quando hai cominciato la tua carriera di musicista-globetrotter?
Ho iniziato a suonare all’estero nei primi anni Ottanta grazie all’incontro con il contrabbassista del trio di Duke, Jimmy Woode, con il quale mi sono esibito al prestigioso  Widden Bar di Zurigo, un posto che mi ha lasciato dei fantastici ricordi.  Da allora la mia palestra artistica è stata il suonare continuamente con tantissimi grandi nomi del panorama jazzistico in giro per il mondo ”.
Quali sono i pro e i contro di un cammino di questo tipo?
A parte il fatto di essere stato lontano dagli affetti casa, vedo solo tanti pro: ho girato il mondo, ho conosciuto persone straordinarie, ho incontrato culture affascinanti, ho imparato a essere più tollerante con gli altri, ho imparato qualche lingua, mangiato cose buonissime, suonato tanta musica, riso tantissimo e scoperto cose di me stesso che non conoscevo. Rifarei tutto ciò che ho fatto”.
Nel 1988 Dado Moroni inizia una lunga tournée che lo porta a suonare per conto del Dipartimento di Stato americano con il sestetto di Alvin Queen in sette Paesi dell’Africa. Nel dicembre del ’91, la svolta della sua vita: si trasferisce a New York, dove entra a far parte della locale scena jazz, assumendo ruoli sia di leader sia di musicista di diverse band. Suona nei club più prestigiosi, tra quali Blue Note, Birdland e Village Vanguard e matura per la metropoli americana una passionaccia incredibile. “Qualsiasi cosa succeda, New York è sempre un’incredibile centrale delle idee, un fulcro imprescindibile da cui nascono continuamente situazioni, proposte e innovazioni. Personalmente l’ho amata dal primo instante in cui vi ho messo piede e l’amore continua ancora forte come sempre. Come in tutto il resto del mondo anche a New York si sentono le varie crisi, ma resta sempre la città del jazz, almeno per me”.
Com’è cambiato il punto di vista dei musicisti americani verso il jazz europeo?
Mentre fino alla fine degli anni Novanta erano abbastanza pochi i musicisti europei in attività negli States, ora, grazie anche a internet, quindi all’immediatezza delle informazioni, l’abbassamento dei costi dei voli e l’indubbia forza dell’euro sul dollaro, sono sempre di più i musicisti europei che si trasferiscono in America, o almeno vi passano lunghi periodi, confrontandosi con gli artisti locali e scambiandosi idee. Grazie a questo credo che ormai tanti musicisti americani siano più stimolati nel venire in Europa ed esibirsi con musicisti locali. Anni fa non era così, i musicisti statunitensi spesso avevano una “lista” di europei con cui si poteva suonare, e la scambiavano con gli amici che di volta in volta effettuavano tournée”.
Un consiglio a un giovane jazzista italiano in fila al check-in con un biglietto di sola andata per New York?
Sii educato, rispettoso, ma sappi farti valere umanamente. Musicalmente sii umile, apri le orecchie e ricordati che per quanto tu possa essere preparato c’è sempre qualcuno dietro l’angolo che potrebbe esserlo più di te. Studia, suona e alla domenica va in chiesa, per pregare, se credi, e per immergerti nel suono degli spiritual e del gospel, che sono alla base di tutto. Da là arrivi al blues, al jazz e puoi fare tutto”.
Ad oggi, Dado Moroni ha suonato in oltre cinquanta album per le più importanti etichette discografiche. Da ricordare la collaborazione con due gruppi storici: la “Paris Reunion” (con Joe Henderson, Curtis Fuller, Woody Shaw, Johnny Griffin e Jimmy Woode) e la “Mingus Dynasty” (con Danny Richmond, John Handy, Jinny Knepper, Craig Handy e Reggie Johnson).
Come nascono i tuoi pezzi, da un incipit particolare?
Quasi mai. Può accadere mentre guido, perché il suono dei giri del motore mi ricorda un armonico particolare o può accadere ascoltando i passi della gente per strada, cercando di isolare un ritmo o addirittura posso ispirarmi alle quasi note di un cigolìo di una porta. È generalmente difficile che mi sieda al piano e dica a me stesso “ok, adesso componiamo”. Sarà successo forse due volte in tutta la mia vita“.
Quali sono stati i maestri che ti hanno aiutato a sviluppare il tuo talento naturale?
Ho iniziato da solo. Avevo la dote di sentire con naturalezza le frequenze basse; questo mi permetteva di inquadrare le linee di basso, che assieme alla melodia forniscono lo scheletro di un pezzo. Sono gli elementi fondamentali all’interno del quale chi sta in mezzo può colorare con la propria tavolozza. Non per niente ho sempre trovato affascinante il gruppo di Gerry Mulligan e Chet Baker senza pianoforte”.
Ma un maestro ci sarà pure stato?
Come ti dicevo, all’inizio non avevo un maestro, fino a quando mio padre non mi portò in un jazz club di Genova a sentire il pianista Flavio Crivelli, che suonava jazz ma si era diplomato al Conservatorio di Parma con Benedetti Michelangeli. Non a caso aveva un suono bellissimo. Crivelli mi ha poi insegnato a trattare lo strumento, ad allargare gli orizzonti e anche a stare sul palco”.
Cosa ne pensi delle sperimentazioni e delle contaminazioni nel jazz?
Sono molto favorevole alle sperimentazioni. Aiutano la musica a crescere. Non è detto che funzionino sempre, ma quando funzionano, è davvero fantastico. Il fatto è che non puoi saperlo finché non ci hai provato. Per le contaminazioni è quasi lo stesso discorso, sono forse gli esperimenti riusciti male. Ad ogni modo sono cose necessarie, che permettono ai musicisti di crescere”.
E adesso facciamo un gioco. Dimmi con quali musicisti del passato avresti voluto suonare e con quali del presente.
Dado non ci pensa molto, nonostante sia la prima volta che gli viene posta questa domanda.
Ecco la mia band del passato: tromba Kenny Dorham; tenor sax John Coltrane; chitarra Wes Montgomery; basso Paul Chambers; batteria Elvin Jones. Special guest Cannonball Adderley all’alto. Band attuale: vibrafono Bobby Hutcherson; tromba Tom Harrell; sax alto Steve Wilson; basso Ron Carter; batteria Alvin Queen”.
Tra cento anni, per quale tua peculiarità ti piacerebbe essere ricordato?
Diciamo una specie di epitaffio?”
Più o meno.
Era un musicista libero, non ha mai suonato cose che non gli interessavano, aveva il suo suono ed era una persona per bene”. 

Fotografie di Umberto Germinale

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