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Il Museo dell’Emigrante – di Silvia Bia

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Roasio, il paese con la valigia

di Silvia Bia

Ruggero Micheletti vive in Namibia da dieci anni, ma dice di sentirsi veramente a casa ogni Natale, a Windhoek, roasio-1quando la mamma fa le valigie dalla Nigeria e viene a stare per qualche giorno da lui insieme al padre e ai suoi fratelli, per preparare la bagna cauda. Pranzano tutti insieme così, almeno una volta all’anno. Poi ognuno ritorna al suo lavoro: il padre ad Abuja, a costruire aeroporti e ospedali, il fratello minore a gestire il lodge in Caprivi e l’altro a Windhoek, a coordinare con un tour operator gruppi di viaggiatori, Ruggero a guidarli da un estremo all’altro della Namibia. 
Vivono tutti in Africa, come i genitori e i nonni, da un tempo che ormai sembra lontanissimo. Il “continente nero” è nei ricordi della loro infanzia come la cresta di montagne che separa il territorio di Biella e Vercelli dalla Valle di Gressoney, poco lontano dalle case in cui sono cresciuti. 
Il comune di Roasio nella zona è conosciuto da tutti come il “paese degli africani”. Per la gente del posto è normale vivere con la valigia in mano, spostarsi da un continente all’altro, vedere l’Italia una o due volte all’anno e avere parenti sparsi in giro per il mondo. 
I cittadini di Roasio sono tutti figli di emigranti. E come i loro padri, che hanno visto a tratti nella loro vita sempre allontanarsi o tornare su un treno, su una nave, e oggi sugli aerei, anche per loro è difficile rimanere e mettere radici in un posto che ha sempre conosciuto partenze e ritorni. Come Ruggero e i suoi fratelli hanno fatto in tanti. Seguendo la fortuna dei padri, conquistata con sacrificio lungo i binari martellati e trasportati a mano dopo la guerra, nel lavoro di cantiere per grandi imprese che in Africa andavano a costruire strade e reti ferroviarie, innalzare ponti, palazzi,  aeroporti. 
Una storia di emigrazione che si perde nei racconti dei nonni e dei bisnonni, per un paese che oggi conta 2500 anime, di cui 600 lavorano all’estero: era così nel 1826 e così continua ad essere. Mentre in Piemonte si gettavano le basi per il Regno d’Italia, a Roasio, in un territorio dove la gente non aveva mai goduto di grande ricchezza soprattutto per le condizioni poco favorevoli del territorio, tutti cominciavano già ad avere il mal d’Africa quando l’Africa era solo un continente misterioso, lontano dalla fama delle guerre di Etiopia e Somalia, dai colonialismi del duce e dai desideri di conquista sul mappamondo spartito a tavolino dai potenti. Era solo un “altrove” dove lavorare, fare soldi, per poi tornare con la schiena spaccata e la pelle imbrunita dal sole, farsi una bella villa sulle alture che danno sulla statale tra Biella e Gattinara e lì passare, se fortunati, gli ultimi anni della propria vita. Era qui che le mogli e i figli stavano ad aspettare, a tenersi stretti i ricordi mentre gli uomini partivano, a volte senza fare ritorno. 
Mentre le ciminiere delle industrie del tessile sputavano fumo, si ingrandivano i casati aristocratici piemontesi e i nuovi borghesi si arricchivano, gli “africani” di Roasio costruivano una storia unica per l’Italia, anche se simile a quella di tanti migranti che fra Otto e Novecento partivano con una valigia di cartone per andare oltreoceano o per cercare una nuova vita al di là delle Alpi. C’erano gli zii d’America e i cugini d’Oltralpe. E poi c’erano gli “africani” di Roasio.
Oggi la storia di questo piccolo paese e dei suoi pionieri d’Africa è racchiusa in un museo che è diventato memoria di tutti coloro che nel corso dei secoli dalle alture di Roasio sono partiti per trovare la propria strada oltre i confini dell’Italia. 
Il Museo dell’emigrante di Sant’Eusebio di Roasio ha aperto i battenti il 22 aprile 2001. L’idea è nata da Velia Micheletti, oggi presidente dell’istituzione, e da un gruppo di figli di emigranti. Una decina di anni fa, di ritorno da un viaggio in Australia, queste persone, con tanto da raccontare non solo sulla propria vita, per oltre metà trascorsa tra Nigeria, Sudafrica e Congo, ma anche su quella dei propri genitori, hanno deciso di documentare la storia delle origini della loro gente e di Roasio, definito da loro stessi “il paese con la valigia”. 
A ricostruire le prime migrazioni ci sono i documenti, i primi passaporti, le fotografie dell’epoca. Dalla corsa all’oro alle grandi opere dei giorni nostri, dagli accampamenti in mezzo alla vegetazione selvaggia alle tenute padronali di inizio Novecento. Il nuovo porto di Takoradi nella Costa d’Oro, il ponte sullo Zambesi, la “Independence House” a Lagos. Tutte tracce dei roasiani in Africa. Tutti i cittadini hanno partecipato al progetto donando oggetti, vecchie valigie, immagini e scritti che testimoniavano la propria storia personale di migranti e nel contempo quella dell’intero paese. 
Come Ruggero e Velia Micheletti, accomunati dal cognome, ci sono Grato Carlo Cappa, Maurizio Morino, Angelo Valsesia, e prima di loro Agostino d’Alberto, considerato il primo pioniere della corsa all’Africa roasiana. Fu lui ad aprire la strada all’emigrazione nel Continente Nero, seguendo l’esempio di inglesi e boeri, lavorando alla costruzione di ferrovie e strade, e diventando così importante da essere chiamato tra i suoi concittadini il “Re della Costa d’Oro”. La storia di D’Alberto, partito a bordo di una nave con una valigia di cartone, è quella dei roasiani, immortalata tra i cimeli del museo che vigila sulla valle tra Biella e Vercelli. Persone umili che lasciavano alle spalle casa e famiglia per andare tra i pericoli e l’ignoto di un nuovo continente lontano mille miglia, in mezzo a un popolo allora sconosciuto. Che scrivevano alle mogli chiedendosi quanto sarebbero stati più grandi i loro figli, quando li avrebbero reincontrati. Che di giorno faticavano ore sotto il sole per costruire infrastrutture e opere civili in posti in cui la civiltà era ancora lontana, e che di sera, tornando alle capanne in cui dormivano, indossavano la camicia bianca e i pantaloni buoni per sentirsi ancora a casa, nonostante la polvere e il sudore. Per immaginare di essere ancora insieme alle loro famiglie, a Roasio, in quel pezzo di Piemonte povero ma tanto amato che avevano lasciato mesi o anni prima e che chissà quando avrebbero potuto rivedere. Che si facevano foto ricordo insieme ai neri d’Africa mentre insieme spostavano pietre e abbattevano palme nelle foreste equatoriali. 
Quello che non mancava, di certo, oggi come allora, era la voglia di fare, di costruire, di realizzare. Così da braccianti e da operai, quegli uomini sono diventati imprenditori e ingegneri. E oggi hanno fatto la fortuna del loro paese, che nel corso dei secoli è rimasto piccolo, ma è diventato, in un certo modo, grande come tutto il mondo. Oggi a Roasio tornano i pronipoti e i figli degli emigranti da tutti i confini, per cercare le proprie radici. E ora che l’Africa è diventata meta turistica, anche gli italiani possono ritrovare le proprie origini nel Continente Nero. Perché, proprio grazie ai roasiani, un pezzo di Piemonte è anche là. 

Questo articolo ha ricevuto una menzione speciale alla V edizione del Premio Piemonte Mese, sezione Cultura e Ambiente

Le immagini sono tratte dalla sezione dedicata al Museo del sito del Comune di Roasio: www.comune.roasio.vc.it.

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