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Mantegna in salsa sabauda. La mostra a Palazzo Madama è un’altra grande opportunità che Torino coglie solo in parte – di Lucilla Cremoni

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La mostra a Palazzo Madama è un’altra grande opportunità che Torino cogli
e solo in parte
di Lucilla Cremoni

Sulla carta, la mostra Andrea Mantegna. Rivivere l’antico, costruire il moderno, che fino al 4 maggio riempie le sale monumentali di Palazzo Madama, sarebbe una di quelle Grandi Mostre capaci di rimettere Torino nel grande giro internazionale dopo anni di piccolo cabotaggio in cui solo la competenza e il lavoro eroico di studiosi e organizzatori è riuscito a formulare proposte interessanti – e anche autentiche meraviglie come quel piccolo capolavoro che fu, qualche anno fa, la mostra su Guala Bicchieri.
In realtà non è vero che Torino negli ultimi anni sia stata povera di proposte culturali e artistiche interessanti: pensiamo alle mostre su Guttuso, Van Dyck, Madame Reali. E soprattutto alla mostra della primavera 2019 sulle maioliche rinascimentali, un’opportunità unica di ammirare duecento capolavori assoluti provenienti da tutto il mondo e selezionati dal massimo esperto mondiale della materia.
E allora, perché uso l’espressione “sulla carta”?
Perché questa mostra, come le altre menzionate, soffre di “sabaudite”: si fa ma non si dice, non si comunica, non si cerca di acchiappare il pubblico, invogliarlo a condividere non dico un entusiasmo, ma almeno un briciolo di coinvolgimento. Inutile – tanto il risultato non cambia – lanciarsi in psicanalisi da bar per capire se questo vada ascritto ad arroganza, timidezza, alla proverbiale riservatezza dei più anglosassoni degli italiani, a tutte queste cose assieme. O magari alla pervicace mancanza di voglia e/o capacità di comprendere che la “sostanza” e la “forma” non sono entità distinte e gerarchicamente separate, ma elementi non scindibili e ugualmente importanti del medesimo soggetto, prodotto culturale o concetto.
Va da sé che alla base di tutto c’è il solito problema: sappiamo bene che i fondi destinati alla comunicazione di questa mostra erano pochi, appena 130.000 euro, con i quali non si comincia neanche a imbastire una campagna promozionale degna di questo nome. Ma il problema non è tutto nella scarsa pecunia.

Cosmè Tura, San Giorgio (Fondazione Cini, Venezia)

Come Gabriele Ferraris, oggi comunicare efficacemente un evento culturale significa saper creare e vendere una “narrazione”, un’emozione, un Evento, di un’esperienza in grado di attrarre e far venire apposta anche un pubblico che di arte mastica poco e niente. Un lavoro che va ben oltre quello, peraltro impeccabile, dell’ufficio stampa.
La mostra su Mantegna quel potenziale di attrazione l’avrebbe in abbondanza, potrebbe compenetrare sostanza e forma con la massima naturalezza: parliamo di Rinascimento, un nome che affascina pure chi non ha ben chiaro cosa sia; ci sono i Grandi Artisti che tutti hanno sentito nominare, o anche solo letto sulla targa di una strada; è allestita nell’edificio più centrale e iconico di Torino, quello che ne rappresenta duemila anni di storia e arte; ed è anche il posto più facilmente raggiungibile di tutta la città, non lo si può mancare neanche di proposito.
Ma non lo usa, quel potenziale. Anzi, pare che non prenda neppure in considerazione la possibilità di farlo, o non ne sia capace, o non gliene importi abbastanza.
Intendiamoci: dalla mostra non si esce delusi rimpiangendo la spesa del biglietto. Niente affatto. Certo, manca il pezzo-feticcio di Mantegna, quel Cristo morto così rivoluzionario e potente da diventare uno dei quadri simbolo del Rinascimento. Ma c’è l’Ecce Homo, che è anche l’immagine guida della mostra, e ci sono, suddivise in sezioni tematiche, circa centotrenta opere di cui venti dipinti dell’artista eponimo ai quali si aggiungono disegni, incisioni, lettere; e una schiera di opere con firme che comprendono Antonello da Messina, Giovanni e Jacopo Bellini, Paolo Uccello, Cosmè Tura, Donatello, Correggio, Leon Battista Alberti, con i quali Mantegna fu in vario modo in relazione. E la mostra è introdotta da una proiezione multimediale immersiva nella Corte Medievale di Palazzo Madama (uno spettacolo in sé) che presenta, assieme alla storia dell’artista e del suo tempo, le opere che non possono essere esposte in mostra, come la Camera degli Sposi a Mantova, la casa che Mantegna si progettò sempre a Mantova o i Trionfi.
Ci si può chiedere”, scrivono i curatori nel saggio introduttivo, “se questa mostra torinese abbia qualcosa di nuovo da comunicare che non fosse presente nelle mostre precedenti e se valga la pena di visitarla. La seconda domanda trova una facile risposta. La mostra di Torino offre un’eccezionale opportunità di vedere molte significative opere di Mantegna, come non è stato più possibile in Italia dopo il 2006: in occasione del cinquecentenario, d’altronde, la frammentazione espositiva in tre diverse sedi – Mantova, Padova e Verona – non aveva certo favorito un’organica presentazione del lavoro dell’artista”.

Giovanni Bellini, Ritratto di giovane in veste senatoriale (Padova, Museo d’Arte Medioevale e Moderna)

Vale certamente la pena di visitare questa mostra.
Proprio per questo si desidererebbe un allestimento più arioso, in cui fosse posse possibile fermarsi davanti alle opere e guardarsele con tutta calma mentre si ascolta l’audioguida, o si ripassa la storia dell’arte studiata a scuola.
Un’illuminazione più curata e un percorso più rilassato e intuitivo consentirebbero di comprendere e apprezzare meglio lo scopo dichiarato dei curatori, che non è solo seguire la carriera di Mantegna e il modo in cui interagisce col suo tempo, le altre discipline artistiche e agli artisti suoi contemporanei, ma anche come costruisce la propria immagine e la usa per costruire e gestire la professione e i rapporti coi committenti.
Non è che gli spazi di Palazzo Madama non siano adatti, semplicemente quelli usati non paiono sufficienti, una sala o due in più avrebbero sicuramente giovato, ne sarebbe valsa la pena. E viene da domandarsi come mai all’Ecce Homo, diventato il pezzo forte e conclusivo della mostra (in mancanza del Cristo morto rimasto a Brera), non sia almeno stata data “una stanza tutta per sé”, anche piccola, e magari con una panchetta su cui sedersi e dedicargli qualche minuto.
Non si esce da questa mostra delusi. Ma un po’ demoralizzati sì. Questa non è una mostra con luci ed ombre, perché non ci sono ombre.
Piuttosto, vi penetra il grigiore opaco di una Torino sempre più hinterland di se stessa.

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