Valledora, o la distruzione di un territorio
di Floriana Rullo
Quando Gabriella ha comprato la sua cascina ad Alice Castello, nel pieno della pianura vercellese, non si aspettava di trovarsi un giorno a vivere in mezzo alle discariche. Né tanto meno di dover convivere ventiquattr’ore su ventiquattro con topi e mosche. Non immaginava neppure che la sua vita si sarebbe trasformata in un inferno a causa di quei piccoli rilevatori di colore rosso montati nella sua cantina e pronti a dare l’allarme in caso di esplosione dei biogas emessi dal terreno.
Invece, col passare degli anni, le cave si sono moltiplicate. Una, poi due, tre. E poi, una per una, quelle stesse cave sono state trasformate in discariche. Da quella di rifiuti speciali di Cavaglià a quella con spazzatura urbana e assimilabile di Alice Castello. Per non parlare di amianto, rifiuti speciali e scarti chimici. Per un totale di quasi quattro milioni di metri cubi di spazzatura. “Negli anni ‘90 hanno iniziato a scavare, scavare, scavare”racconta Gabriella contemplando il suo territorio devastato. “Poi mi hanno detto che forse avrebbero fatto una discarica. E ora siamo circondati dai rifiuti”. Il motivo della scelta è semplice: i buchi delle cave c’erano già, erano solo da usare. “Ogni volta scattava un’emergenza e la destinazione delle cave in disuso era scontata. Ogni buco veniva riempito da rifiuti”.
Così, in poco tempo, Gabriella ha visto cambiare la terra che la circondava. Un incubo a pochi metri da quella casa costruita con fatica e sacrifici. In pochi anni ha visto trasformare i terreni che la attorniavano in una fabbrica del rifiuto a cielo aperto. E la Valledora è diventata in un batter d’occhio uno dei territori più violati d’Italia.
Ma, mentre tutti i suoi vicini di casa, stanchi di subire quelle torture e in cerca di scampo dai veleni che hanno colpito terra, aria e acqua, sono fuggiti, Gabriella e la sua famiglia hanno deciso di restare e lottare con tutte le forze contro quella vita d’inferno.
Ma come hanno fatto i cavatori ad ottenere da Provincia e Comuni i permessi per lavorare in terreni così vulnerabili? La spiegazione è semplice. Nella provincia di Vercelli e Biella manca completamente un piano sostenibile per l’escavazione. Basta considerare che la regolamentazione attuale si rifà al Decreto Regio del 1927 e che in teoria sono le Regioni a dover regolamentare il settore, anche se solo alcune lo fanno. “Perché è vero che ogni singolo impianto, ogni singola cava ha l’autorizzazione per esistere, ma manca l’attuazione di un piano territoriale che tenga conto di una situazione unica. Qui, per esempio, si chiede solo che le cave vengano poi ripristinate come previsto all’atto dell’autorizzazione del progetto. Non importa in che modo poi questo venga fatto” spiega Anna Andorno, portavoce del movimento Valledora. “Per esempio in quelle già esistenti ci hanno promesso di creare zona turistica: dal bosco a 25 metri di profondità, quasi dantesco, alla cava in falda su cui si potrà fare sci nautico. Ma di recuperi ambientali non ne abbiamo ancora visti. Per ora abbiamo solo avuto un parco divertimenti del rifiuto”.
Ma adesso la situazione sembra cambiare, forse dopo tante battaglie si apre uno spiraglio di luce. “Noi siamo come Don Chisciotte e stiamo lottando contro un nemico apparentemente invisibile, che arriva da ogni parte”, prosegue Anna Andorno. “Ora, dopo anni, qualcosa sembra muoversi. Per la prima volta due comuni, Tronzano e Santhià, coraggiosamente, hanno votano delibere che negano nuovi ampliamenti delle cave. Forse ci sarà una nuova storia per la nostra terra”. Insomma il luna park degli scavi e dei rifiuti piemontesi e lombardi, almeno per ora, sembra non aumenterà il numero delle sue ripugnanti attrazioni. E i cittadini sentitamente ringraziano, anche se non abbassano la guardia.
Questo articolo ha ricevuto una menzione speciale alla V edizione del Premio Piemonte Mese, sezione Cultura e Ambiente
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