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L’abbazia di Novalesa

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NOVALESA
L’Abbazia dei SS. Pietro e Andrea

Testo di Franco Caresio
Foto Lucilla Cremoni

Poco sopra Venaus, l’abbazia dei SS. Pietro e Andrea a Novalesa sorge su una modesta altura non distante dal torrente Cenischia, quasi ai piedi del Moncenisio, quindi nella parte terminale della valletta che sbocca in quella della Dora Riparia, alle spalle di Susa. Della sua fondazione, risalente al 726, si conserva l’atto originario con le firme di Abbone, governatore di Susa e della Moriana (regione a cavallo delle Alpi, parte del regno dei Franchi) e di esponenti del clero locale.
L’abbazia rispondeva a esigenze religiose ma anche politico-territoriali: era un elemento importante dell’espansione franca in area cisalpina, era il primo porto sicuro dopo la difficile traversata delle Alpi lungo la via del Moncenisio, sin dai tempi antichi percorsa da mercanti, pellegrini ed eserciti, e diventava tappa obbligata nel cammino da e per il territorio dei Franchi. Una funzione che nell’814 verrà integrata con la costruzione dell’Ospizio del Moncenisio, proprio in cima al valico, per volontà di Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno.

Lo schema planimetrico generale non è oggi molto diverso da quello del XII secolo, e anche la vita monastica sembra non essersi mai interrotta. Eppure, nei secoli, vari avvenimenti hanno investito questo straordinario centro di vita religiosa, artistica e culturale. Nel 906 anche il monastero novalicense è minacciato dai Saraceni, che dalla Provenza seminano il terrore lungo tutto l’arco alpino. L’abate Donniverto e i monaci riparano a Torino, abbandonando l’abbazia che viene depredata, per tornare sul finire del X secolo, guidati però da un priore e non più da un abate, perché il titolo abbaziale e la sede giuridica sono passati, già dal 929, alla nuova Casa Madre a Breme, in Lomellina. In meno di due secoli, il complesso assume, nelle linee generali, l’assetto organizzativo attuale, ma la sua storia registra altri durissimi colpi: nel 1480 inizia la sede di abati commendatari, nel 1646 i cistercensi sostituiscono i benedettini, nel 1855 il monastero è soppresso dalla legge Rattazzi e i suoi beni sono venduti all’asta; sette anni dopo abbazia è trasformata in centro termale, nel 1870 passa al collegio Umberto I di Torino ne fa sede estiva per i convittori. Infine, nel 1972 l’Amministrazione Provinciale di Torino delibera l’acquisto della antica abbazia con l’impegno di ricostituirla nella sua integrità, restaurarla e riportare il monastero alla sua funzione originaria. L’anno successivo, i monaci benedettini – il primo gruppo arriva dall’abbazia di San Giorgio Maggiore di Venezia – tornano a Novalesa.

Il complesso abbaziale
Sin dalla fondazione l’abbazia fu articolata in due nuclei. Il primo, molto compatto, è ancora oggi rappresentato dalla chiesa abbaziale (l’edificio attuale è il risultato della ricostruzione ottocentesca), dal chiostro e da vari edifici monastici. Il secondo è costituito da quattro piccole cappelle. La prima, dedicata a Santa Maria, è isolata in un prato, mentre le altre – intitolate a San Michele, al SS. Salvatore e a Sant’Eldrado –  si trovano nel piccolo parco annesso all’abbazia.
Il cuore dell’abbazia è la grande chiesa, ricostruita fra il 1712 e il 1715 da Antonio Bertola su incarico di Vittorio Amedeo II. Ha una semplicissima facciata e l’interno, di un sobrio barocco, è a navata unica con cappelle laterali e volta a botte. I restauri hanno fatto riemergere resti del primo edificio sacro e frammenti di affreschi, di autore ignoto, che testimoniano almeno due campagne decorative importanti, la prima da collocarsi attorno alla metà dell’XI secolo, la seconda attorno al XV. Al fianco meridionale della chiesa si affianca il piccolo, suggestivo chiostro. Dell’antico porticato che cingeva l’intero cortile rimangono due lati con arcate a tutto sesto sostenute da semplicissime colonne poggianti su basamenti irregolari. Abbandoni, destinazioni improprie e devastazioni hanno fortemente danneggiato il patrimonio artistico di Novalesa, ma a tratti emergono da intonaci recenti frammenti di affreschi di grande bellezza come, nel lato settentrionale del chiostro, la rappresentazione diCristo Pantocratore tra Santi e una offerente della prima metà del XII secolo. Sul muro verso il cortile, all’altezza del primo piano, c’è una grande meridiana e verso la parte absidale della chiesa si erge il modesto campanile (circa 22 metri) costruito fra il 1725 e il 1730.

Le cappelle
Quattro preziose cappelle, edificate verso l’ottavo secolo (ma solo due conservano l’aspetto originario), completano il complesso, e non sembrano collegate fra loro da un nesso funzionale o liturgico: quella dedicata a Santa Maria, che si incontra salendo al monastero, è a circa trecento metri dalla chiesa abbaziale; le altre tre (Santissimo Salvatore, San Michele e Sant’Eldrado) sono raggruppate in uno spazio abbastanza ristretto, a poche decine di metri dal nucleo centrale. Secondo un’antica leggenda, le quattro cappelle sarebbero state erette ove sorgevano, e per distruggere, preesistenti  sacelli pagani. Più plausibilmente, invece, si può supporre che delimitassero l’area riservata alla vita monastica.
Solo le cappelle di S. Maria e S. Michele preservano l’aspetto originario. La prima sorge oggi in un prato, ma un tempo si trovava quasi sul ciglio dell’antico sentiero ormai cancellato. Logico ipotizzare che fosse l’ingresso all’area monastica e che attorno vi sorgessero piccole costruzioni per ospitare pellegrini e viandanti. L’impianto della piccola costruzione segue moduli abbastanza diffusi, nell’antichità, in area montana, e all’interno si trovano due affreschi databili al XV secolo avanzato: una Santa Maria Maddalena e una Santa Maria Egiziaca. La cappella di San Michele (detta anche di San Pietro), simile alla precedente ma con la facciata caratterizzata da tre grandi archi ciechi di probabile derivazione carolingia, all’interno è stata gravemente rimaneggiata in epoca barocca, con la distruzione di un ciclo di affreschi forse del tardo XI secolo. La cappella del Santissimo Salvatore, leggermente più grande e il cui ingresso è a filo dell’antico sentiero che costeggia il muro di cinta del complesso abbaziale, è stata ricostruita nella seconda metà dell’XI secolo. Gli affreschi all’interno, risalenti forse all’XI sec. e documentati ancora all’inizio dell’Ottocento, sono andati completamente perduti.
Sant’Eldrado
Ma è la quarta cappella, la più a sud dell’intero complesso, che riveste oggi l’interesse maggiore. È detta di Sant’Eldrado, ma è intitolata anche a San Nicola. Costruita tra la fine del X secolo e la prima metà di quello successivo (mentre il piccolo atrio fu edificato intorno alla metà del Seicento), conserva uno dei cicli pittorici di età romanica più belli e integri in Piemonte. A dominare l’intera decorazione è la straordinaria figura di Cristo Pantocratore in mandorla che richiama la tradizione bizantina e possiede una ieraticità mai raggiunta in altre raffigurazioni analoghe. Ai lati e ai piedi di Cristi, figure di angeli, San Nicola e Sant’Eldrado e due abati, forse Aldradus (abate di Breme fra il 1060 e il 1096) e il suo successore.
Nella prima campata verso l’abside, pareti e volta ritraggono Storie della vita di San Nicola.  La dedicazione di un ciclo di affreschi a un santo poco noto in quegli anni in Piemonte si deve al fatto che nel 1096 un crociato francese di ritorno in patria con alcuni frammenti delle reliquie di San Nicola ne donò una parte all’abbazia di Novalesa. Perno degli affreschi  sulla volta di questa prima campata è un grandeAgnello che regge la Croce, simbolo di Cristo. Pareti e volta dell’altra campata, la prima verso l’ingresso, sono invece decorate con le Storie di Sant’Eldrado, abate fra l’822 e l’840. L’affresco della volta è spartito in quattro campi da due ampie fasce dipinte a motivi floreali che simulano l’incrociarsi di costoloni. Infine, sulla controparete di facciata è dipinto un Giudizio universale, reso pressochè irriconoscibile da pesanti ed errati tentativi di restauro ottocenteschi.
La cappella di Sant’Eldrado si rivela, con i suoi preziosi affreschi, una delle più belle e suggestive pagine della grande arte romanica padana. La paternità delle sue straordinarie decorazioni, conservatesi straordinariamente fresche e integre, è quasi sicuramente da attribuire non tanto a un singolo pittore quanto a un atelier di artisti, di formazione veneto-lombarda, ancora permeati della grande tradizione bizantina ma già attenti a linguaggi meno aulici.

Pubblicato su Piemonte Mese settembre 2010

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