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Paralup – di Oscar Borgogno

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Una rinascita tra architettura e Resistenza

di Oscar Borgogno

Il giorno 20 la banda Italia Libera abbandona Madonna del Colletto e raggiunge Paralup, nella bassa Valle Stura. La nuova base, sette povere baite a quota 1361, appare sicura. Ma sono i problemi logistici che adesso non trovano una soluzione pratica. La zona è poverissima, nel Vallone di Rittana il proprietario di due vacche è già un contadino ricco”
paralup-3  Era il 20 febbraio del 1943 e queste sono le parole scelte dallo scrittore partigiano Nuto Revelli per definire il vecchio borgo, tra le Valli Stura e Grana con vista sulla pianura e la città di Cuneo, che divenne il cuore pulsante della Resistenza piemontese al nazi-fascismo. In venti mesi ospitò  centinaia di partigiani, tra cui Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco, Italo Bardengo, Dino Giacosa, Leo Scamuzzi e il giovane studente Giorgio Bocca. Terminata la Liberazione, Paralup uscì, rapida come vi era entrata, dal flusso della “grande storia”, e conobbe l’abbandono. A spopolarla ci pensò la guerra, i montanari mandati in guerra e mai tornati, la miseria nera, il vorace sviluppo industriale della pianura. Un po’ alla volta, in più di sessant’anni, le baite si sono sgretolate, il bosco ha riconquistato terreno, il silenzio l’ha circondata. 
Fino a quando, nel 2006, la Fondazione Nuto Revelli ha deciso d’impegnarsi per farla rinascere, col supporto economico della Regione Piemonte e di alcuni istituti bancari. Spiega il presidente Marco Revelli (figlio di Nuto): “Eravamo riuniti per celebrare il 25 aprile e, quando l’amico Teo De Luigi lanciò l’idea di recuperare Paralup, ci prese un entusiasmo forse da lui stesso inaspettato”. 
Un entusiasmo che non si è spento la mattina successiva, ma si è diffuso contagiando nuove persone, e nel giro di pochi mesi ha portato alla redazione di un progetto straordinariamente innovativo. L’obiettivo era chiaro: “Fare di Paralup, all’inizio del XXI secolo, il simbolo del Villaggio della Libertà, in cui sia possibile ritrovare le tracce di un passato ancora vivo sotto la superficie della riconquistata normalità, riscoprire un’esperienza che rischia di scivolare nelle secche della rappresentazione retorica e mitizzata”. 
Insomma, molto di più di più di un semplice restauro. Non “una normale iniziativa didattica o un’ennesima impresa museale, spiega Marco Revelli, e men che meno vuol lasciarsi tentare dalla via breve e sbrigativa del monumento: recuperare Paralup vuol dire far rivivere un pezzo di montagna come testimone fisico di una memoria storica non ossificata, ricollocarla all’incrocio tra esperienza culturale, storica e turistica, offrendo una spazio attrezzato in cui realizzare e favorire l’incontro, la rielaborazione collettiva, la conoscenza del passato ma anche del presente, l’esplorazione di soluzioni e possibilità per il futuro”. Per realizzare quest’intento ambizioso, è stato fondamentale il lavoro di un gruppo di giovani progettisti e architetti, formatosi intorno ad Aldo e Giovanni Barberis, con la collaborazione di  storici, maestranze, studiosi e amici come Andrea Cavallero e Livio Quaranta. 
Il risultato è stato un progetto che rappresenta sotto molti punti di vista un modello nell’ampio campo del recupero delle aree cosiddette “periferiche”, integrato nello spazio e nel tempo: “un esempio” prosegue Revelli “di intervento filologico sulla struttura della casa contadina e iniziativa cultural-turistica in un habitat di grande importanza”. Per i realizzatori del progetto (il docente di architettura Daniele Regis, gli architetti Valeria Cottino, Giovanni Berberis, Dario Castellino): ogni intervento di ripristino dev’essere distinguibile dalla parte originale delle costruzioni, così com’è nello stato attuale: ciò per non consentire una lettura falsa dell’opera, attraverso l’assimilazione indebita delle parti reintegrate a quelle originali. 
Nessuna volontà quindi di mantenere un’autenticità solo apparente, come purtroppo è accaduto troppe volte negli anni passati in Italia. Tra le due vie contrapposte del “design ingigantito e gli eccessi della creatività, che possono essere favoriti da una radicale e acritica interpretazione del principio della riconoscibilità rispetto alla costruzione originaria” e quella dei “falsari dell’architettura”, a Paralup si è scelta una via più sincera e intraprendente. “Abbiamo voluto realizzare un dialogo tra antico e nuovo nell’aderenza del progetto al contesto, spiegano i progettisti, perseguendo la logica della reversibilità e del minimo intervento sull’esistente”.
Ciò significa che ogni intervento di restauro potrà essere rimosso, nell’eventualità che in futuro ciò si dimostri doveroso in accordo alle nuove sensibilità critiche e alle teorie di restauro. Attraverso un’operazione di “costruire nel costruito”, le tracce e le piante delle baite sono state consolidate e rispettate. Anche in altezza ci si è attenuti agli originali, nonostante la maggiore difficoltà, ricalcando per quanto possibile i volumi autentici, le altezze, le inclinazioni delle falde, in segni nitidi, chiari e depurati. Sono dunque le stesse rovine ad aver suggerito ai progettisti le geometrie, i volumi, la stilizzazione delle forme per un lavoro sobrio.

Questi criteri sono stati rispettati anche nell’uso dei materiali. Per le superfici esterne è stato scelto il legno di castagno non trattato (in accordo ai canoni classici di costruzione alpina), elemento ideale per un’integrazione onesta e complementare ad un’architettura di pietra e alle sue rovine. Le forme poi, pur ricalcando le linee originali, sono stilizzate, depurate, essenziali, sublimate. “Nel rispetto delle normative sul carico di neve, precisa l’architetto Regis, abbiamo mantenuto un carattere di leggerezza anche nell’accostamento della nuova copertura in legno che segue sfiorando soltanto il profilo della rovina, senza coprirlo, in uno scuro che stacca antico e nuovo, pietra e legno”. Analogamente a questo carattere di leggerezza “il tetto in lamiera è leggero e sottile, accarezza l’involucro ligneo, scelto più a protezione del profilo delle rovine che dell’opera stessa”. Il tutto poi è stato improntato, anche nella fase di costruzione, a criteri di semplicità, chiarezza ed efficienza economica. 
La nuova Paralup, innovativa nelle forme, lo vuole essere anche nei contenuti: un simbolo di resistenza, la dimostrazione che in montagna si può tornare a vivere una vita dignitosa (non quella di stenti e sofferenze di un tempo), fatta di lavoro e cultura, riconquistando una frontiera dimenticata dalla modernità. Ed è così che Paralup sta diventando un luogo di ritrovo e di incontro, di elaborazione del futuro (come già lo fu nei mesi della Resistenza): oltre al museo multimediale e alle numerose esposizioni, nel 2011 è stata cornice del “Festival dei luoghi abbandonati”, mentre all’inizio di agosto ospiterà, come da tradizione, il Campeggio Resistente: un evento che declina nel presente l’esperienza della Resistenza, incarnandola nelle giovani generazioni. Come non aveva mai smesso di sognare Nuto Revelli.

 

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