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Le radici della libertà

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Viaggio nel cuore storico delle Nuove

di Diego Vezza


aa-vezza1 Il sole del tramonto è tiepido e basso, dietro il tetto in pietra del Braccio Tedesco. E mentre scende si attarda a sfiorare visi ossuti in una carrellata di istantanee che sanno di un passato ormai lontano. Più che i capelli tirati indietro sono gli occhi scavati e neri a ricordare l’immagine di un triste Fausto Coppi. L’epoca è quella. Leggendo i loro nomi si rievoca la toponomastica di Torino: il dirigente Eusebio Giambone, l’ebreo Emanuele Artom, il generale Giuseppe Perotti, il bibliotecario Giulio Biglieri, il professor Paolo Braccini e altri deceduti nel biennio 1944-’45. Vie trafficate e ampi corsi a cui molti, per la prima volta, riescono a dare un volto.
Sono decine le fotoceramiche appese nell’intercinta, il corridoio perimetrale del carcere Le Nuove, fronte via Borsellino. I ritratti si susseguono, muti, lungo lo spazio un tempo dedicato allo smistamento di viveri e rifiuti, tra mura di cinque metri sormontate da filo spinato e dal passaggio vetrato delle vedette come ammonimento continuo e sempre presente. Più all’interno, gli edifici destinati alla reclusione formano due croci comunicanti grazie al passaggio coperto che veniva chiamato Via Roma per il grande viavai di ufficiali, guardie, suore e condannati a morte. Ora tutto è silenzio e vuoto. S’intuiscono i punti nevralgici del sistema, le due Rotonde, ambienti a pianta ottagonale da cui partono i quattro bracci di celle sovrapposte e nei quali, grazie al sistema panottico, non esistono angoli ciechi difficili da controllare.
La struttura è ottocentesca, a firma dell’architetto Giuseppe Polani che, per volere di Vittorio Emanuele II, condensò in un nuovo e monumentale edificio i vari luoghi di detenzione sparsi per la città. Con regio decreto fu stabilita la segregazione individuale secondo cui ognuna delle 648 celle, progettate con acqua calda e riscaldamento e affiancate da un sistema di carrucole che avrebbe consentito la contemporanea distribuzione dei pasti a tutti i livelli, doveva contenere un unico detenuto. Poi, quando la capitale venne trasferita a Firenze e i soldi dirottati verso altri obiettivi, il carcere dovette essere portato a termine privo delle dotazioni fuori dall’ordinario. L’intera costruzione rimase invariata fino al varo della Costituzione, i cui principi basilari non venivano soddisfatti dalla planimetria originale. A partire dagli anni Cinquanta, quindi, le celle vennero allargate e nei cortili furono abbattuti gli spicchi murari convergenti al centro, simili a raggi di una ruota, tra i quali i reclusi camminavano durante l’ora d’aria come un memorabile Alberto Sordi in Detenuto in attesa di giudizio.

Qui si respira la storia, di Torino e dell’Italia intera. È un luogo simbolo della città che solo pochi torinesi conoscono, capace di contenere negli anni della Resistenza fino a 10.000 oppositori al regime. I suoi 38.000 metri quadri si aprono a pochi passi dal tribunale Bruno Caccia, con lo scheletro del crescente grattacielo di corso Inghilterra a far da sfondo. L’associazione Nessun uomo è un’isola, presieduta da Felice Tagliente, gestisce il museo allestito nei locali di proprietà del Comune e organizza le visite di due ore in cui si ripercorrono i principali avvenimenti che portarono alla libertà dall’oppressione tedesca, intrisi di palpabili sofferenze intrecciate a storie di quotidianità e disarmante forza d’animo.
Il vicepresidente Simone Pezzot, coadiuvato da altri volontari, guida due volte al giorno i visitatori all’interno del braccio femminile, l’unico con i tre piani di balconate rimasti inalterati. Le griglie metalliche salgono ancora fino al soffitto, coprendo le pareti di un bianco rancido che ricorda la neve sporca e calpestata dei campi di concentramento. “Sì, perché oltre alla fucilazione al Martinetto, l’unico modo per uscire dal carcere era essere portati al binario 17 di Porta Nuova e poi, da lì, verso i lager di Germania e Polonia”, racconta Simone a braccia conserte.
A piano terra ci si muove lentamente, sfiorando le porte delle celle aperte verso l’esterno, bianche anch’esse. In realtà sono doppie: la prima è cieca e spessa, con un’apertura circolare grande come l’oculo di un microscopio; la seconda non è che una grata, un’inferriata tra cui è facile immaginare un braccio appoggiato, un gomito che fuoriesce, mani avvinghiate alle sbarre e occhi che ti fissano. Ci si può intrufolare dentro e camminare liberamente sulle stesse piastrelle che hanno accolto i passi disperati delle detenute, immersi nella penombra che una piccola finestra non riesce nemmeno a scalfire.
Si entra e si esce, senza vergogna, ma è un’atmosfera sospesa e avvolgente quella da cui si è circondati. Il rumore dei tacchi è assordante e rimbomba come un tempo dovevano aver fatto gli ordini impartiti dalle guardie armate. Alcuni letti di contenzione in legno sono ancora lì, a testimoniare pene e sofferenze da ospedale psichiatrico, con larghe cinghie di cuoio e un buco nella superficie ruvida attraverso cui defecare in un secchiello. Dal centro della Prima Rotonda, scendendo nel temuto Buco, si accede alle celle interrate dei condannati a morte. Là sotto l’aria è fredda e buia, profuma di terra bagnata, mentre il silenzio permette all’unica luce al neon di singhiozzare a intermittenza, al fondo del corridoio. A breve verrà nuovamente spenta. Tra evidenti incrostazioni di umidità, parole e frasi incise a mano raccontano gli ultimi pensieri di una vita intera. Intrecciati tra le grate delle celle, rose e crisantemi rinsecchiti fanno calare il gelo nelle vene. E poi si esce che manca il respiro.
Dopo una profonda ristrutturazione, ora sono i solai a dividere i piani del famigerato Braccio Tedesco, per anni sotto diretto controllo delle SS. Si sono pertanto perse le balconate, le griglie e l’ampio soffitto dell’atrio comune. Niente più lucernari, solo plafoniere zigrinate che sanno di tribunale.
Se per anni è stata suor Giuseppina a prendersi cura delle condannate, padre Ruggero Cipolla lo ha fatto per gli uomini. Li accompagnavano sereni, sorreggendoli nel percorso di avvicinamento alla morte. Nel momento di scrivere la lettera d’addio ai propri familiari, consigliavano loro di non dimenticarsi l’iscrizione posta in cappella, sull’altare: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Sarebbero stati perdonati e salvati. Leggendole adesso, non c’è traccia di odio o rancore verso i carcerieri, ma solo fiducia e speranza per un mondo migliore, per quell’Italia libera e democratica per cui hanno tanto lottato.
Diceva Piero Calamandrei: “Due sono i luoghi per capire appieno il significato della Costituzione. Le montagne, dove i partigiani hanno combattuto, e le carceri in cui sono deceduti”. Ed è proprio grazie a Le Nuove che ancora oggi i cittadini del terzo millennio possono comprendere perché, e grazie ai chi, sono nati liberi cittadini.
Ora, in occasione dell’imminente trasferimento di parte degli uffici della civica amministrazione, è allestito un cantiere che prevede lo sventramento di alcune aree. Si renderà quindi inevitabile la cancellazione di parte della memoria storica che trasuda vivida da quelle mura. “Verrà un giorno, neanche troppo lontano, aggiunge uno sconsolato Simone Pezzot, in cui nella cella 110 dove Ignazio Vian scrisse con il proprio sangue “Meglio morire che tradire”, vi saranno due segretarie intente a  parlare dell’ultimo gossip letto su una qualche rivista patinata”.

Questo articolo ha ricevuto una menzione d’onore alla VI edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura, Storia e Ambiente

Pubblicato su Piemonte Mese anno IX n. 3, Aprile 2013

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