L’agricoltura sociale secondo Coldiretti
di Lucilla Cremoni
A parlare di agricoltura sociale invece si rischia, anzi si è quasi certi, di ottenere solo uno sguardo interrogativo oppure, se l’interlocutore vuole darsi un contegno e non fare la figura dell’ignorante, una domanda del tipo “ma tu cosa intendi per agricoltura sociale?”. E quando gli spieghi che si tratta dell’uso delle attività agricole per la fornitura di servizi, la riabilitazione o (ri)socializzazione di persone con difficoltà, allora l’espressione assumerà la compassionevole gravità che si riserva ai casi umani più toccanti.
Dalla trappola del pietismo ancora non si sfugge, purtroppo: nessuna remora a spiattellare dettagli che dovrebbero restare oltre la porta (chiusa) del bagno, ma eufemismi, imbarazzi e retorica melensa appena si tocca il tema della disabilità. “Invece lo scopo dell’agricoltura sociale è esattamente l’opposto: è creare vera integrazione e ridurre lo stigma, senza giocare sui pietismi”, spiega Stefania Fumagalli, che è da anni referente
Le aziende che praticano agricoltura sociale continuano a coltivare e ad allevare, ma anziché concentrarsi esclusivamente sulle produzioni si mettono in rete con cooperative, assistenti sociali, psicoterapeuti, eccetera e, nel pieno rispetto dei rispettivi ruoli, riescono a dare “un pezzo in più”, operando su tre aree principali: inclusione sociale e lavorativa, cura e riabilitazione, miglioramento della qualità della vita attraverso la fornitura di servizi.
Parlando della prima area, quella dell’inclusione sociale e lavorativa, il presidente di Coldiretti Piemonte Roberto Moncalvo ci tiene a sottolineare “il fatto che aziende come quelle agricole, che in genere hanno meno di 15 dipendenti e non sono tenute per legge ad assumere persone disabili o con difficoltà, facciano autonomamente, per responsabilità sociale, la scelta di accogliere soggetti vulnerabili”. Ad esempio le donne vittime di tratta: finora i casi sono stati quattro, un numero solo in apparenza basso, perché inserire e mantenere al lavoro persone con questo genere di vissuto non è semplice, tanto che l’esperienza (tuttora in corso, e tre delle quattro donne continuano a lavorare in azienda) è diventata un caso da manuale citato in convegni internazionali come esempio di buona pratica. Oppure il lavoro coi rifugiati politici.
Nel caso di persone con disabilità intellettiva o psichica gli inserimenti, sempre seguiti da personale specializzato, non sono affatto riducibili alla dimensione dell’assistenza, perché i problemi possono rivelarsi risorse: ha fatto letteratura il caso di un’azienda pisana che ha accolto un ragazzo con disturbo ossessivo-compulsivo e ne ha fatto un selezionatore di frutta e verdura senza rivali. Quindi, ribadisce Moncalvo, “non si tratta di fare un favore ai cosiddetti “diversamente abili”, ma se mai di scoprire abilità diverse, che possono rivelarsi preziose nel processo produttivo”. In effetti si tratta di una retro-innovazione: già all’inizio del ‘900 molti internati del manicomio di Volterra furono inseriti nelle fattorie dei dintorni, e con ottimi risultati. In pratica, si stanno ripercorrendo strade già tracciate, ma lo si sta facendo con nuovi strumenti e diverse consapevolezze.
La seconda area di intervento è quella della cura e riabilitazione, ma sarebbe più corretto definirla della co-terapia: le aziende agricole mettono a disposizione appezzamenti o animali per brevi percorsi di cura e riabilitazione come l’onoterapia, l’ippoterapia o l’imparare a (ri)prendersi cura di sé tramite la cura di un orto o di animali domestici.
È proprio in quel periodo che avviene l’incontro con Francesco di Iacovo, docente di Economia e Politica Agraria all’Università di Pisa, “che ci dice: lo sapete che avete fatto agricoltura sociale? E noi a fare tanto d’occhi” ricorda Diego Furia, direttore di Coldiretti Torino. “Poi abbiamo approfondito e ci siamo appassionati, perché si tratta, da una parte, di fornire servizi e migliorare la vita per i soci e i residenti del territorio, dall’altra di offrire alle aziende la possibilità di diversificare e acquisire un ruolo nuovo nella comunità”.
Ma tutto questo ha un significato esclusivamente etico, per quanto lodevole, o porta anche ricadute economiche effettive? Roberto Moncalvo propone qualche spunto di riflessione. “Le aziende agricole che offrono servizi o accolgono persone in difficoltà,spiega, magari non ne ricavano un profitto diretto o immediato, ma il loro impegno sociale porta inevitabilmente un ritorno in termini di visibilità e reputazione, quindi un probabile aumento delle vendite e della dimensione economica dell’azienda stessa. Un altro esempio concretissimo viene dalle terapie occupazionali per soggetti con problemi psichiatrici: non solo l’inserimento familiare in fattoria ha costi molto inferiori a quello in comunità, ma l’esperienza può determinare, e l’ha fatto, una drastica diminuzione dei periodi di ricovero ospedaliero, dell’assunzione di farmaci e delle ore di psicoterapia, dunque un risparmio tangibile. Lo stesso vale per i centri diurni per anziani, per Agrinido e Agritata”.
Si tratta di cambiare mentalità, di superare i particolarismi per lavorare assieme, a cominciare dalla formazione e dall’elaborazione di linguaggi comuni fra agricoltori, operatori sociali, istituzioni, servizi sanitari. “Un lavoro lungo, conclude Moncalvo, ma bisogna crederci, e il Piemonte è molto avanti a livello nazionale, tanti hanno voglia di partire ed è magnifico vedere l’entusiasmo che c’è dietro. Insomma, c’è movimento”.