I volontari laici della LVIA
di Oscar Borgogno
Forse è questo uno dei motivi per cui molti (anche in Piemonte) si stupiscono a scoprire che una tra le più consolidate e operose associazioni italiane di cooperazione internazionale affonda le proprie radici a Cuneo, da ben 47 anni. Si tratta della LVIA (Associazione internazionale volontari laici), che attualmente è presente in dieci stati africani, oltre che in Albania, per realizzare progetti di sviluppo finalizzati a “sradicare la povertà e creare le condizioni economiche, sociali e ambientali necessarie al pieno sviluppo delle potenzialità umane”. Ma come è stato possibile avviare tutto ciò?
Erano i primi anni Sessanta quando Don Aldo Benevelli, un infaticabile sacerdote cuneese reduce dall’esperienza partigiana, radunò una decina di compaesani. L’obiettivo era fornire volontariamente assistenza e vicinanza affettiva ai lavoratori emigrati in Germania e Francia dalle campagne piemontesi. Il Concilio Vaticano II stava rivoluzionando la Chiesa cattolica e in tutta Italia si respirava un clima di grande fermento sociale. “In quegli anni, ama ricordare Don Benevelli, mentre alcuni sceglievano di militare in Lotta Continua, altri hanno impiegato le proprie energie nel creare LVIA”.
Negli anni della sua fondazione il tema della cooperazione internazionale era quasi rivoluzionario e del tutto nuovo per l’opinione pubblica. Si dovette aspettare il 1972 per avere la prima legge italiana di disciplina della “Cooperazione tecnica con i Paesi in via di sviluppo”, grazie ad una forte mobilitazione nazionale di cui Don Benevelli fu promotore. “Prima esistevano soltanto i cosiddetti missionari laici, spiega il presidente Bobba, una sorta di sostegno all’attività degli organi religiosi”. Col passare degli anni le richieste d’intervento si sono moltiplicate e l’associazione ha iniziato ad operare in Burundi, Etiopia, Burkina Faso e Senegal. A partire dal 1978 anche l’Unione Europea ha approvato e co-finanziato molti dei progetti proposti dalla LVIA.
Ciò che contraddistingue l’Ong cuneese è la scelta di privilegiare interventi di lungo termine sui territori rispetto ad azioni di breve durata. “Lavoriamo sullo sviluppo, non su singole emergenze internazionali”, prosegue Bobba. “Preferiamo consolidare per anni la nostra presenza a fianco della popolazione locale, instaurando così un rapporto fiduciario con le comunità e le autorità regionali”. Insomma, un metodo d’azione in linea con il soprannome di Bogianen attribuito ai piemontesi.
In oltre quarant’anni la cooperazione internazionale è cambiata significativamente. Potremmo sintetizzare questa lenta e complessa evoluzione in tre fasi principali. Riassume Bobba: “Negli anni Sessantasi trattava di un puro aiuto unidirezionale dai paesi più ricchi, un semplice “lavorare per”. Col passare del tempo ci si è resi conto che era molto più utile far in modo che le popolazioni locali sentissero come proprie le opere di sostegno realizzate con l’intervento delle Ong. Si è passati così, negli anni Ottanta e Novanta, al “lavorare con”, cioè a una collaborazione più stretta con la popolazione locale.
In questo modo cambia il metodo stesso con cui si lavora nel campo della cooperazione. “Un altro fondamento su cui poggia la nostra azione è il sentirsi responsabili per il fatto che altre persone non possano godere dei diritti fondamenti: una responsabilità comune, tra esseri umani”. Questo è il piano ideale che giustifica l’impegno delle migliaia di volontari che negli anni hanno lavorato con LVIA.
Nel 2003 (ben prima quindi del recente referendum) LVIA ha lanciato la campagna nazionale “Acqua e vita” per difendere il diritto universale all’accesso all’acqua potabile, a livello italiano e internazionale. “Dal 2005 organizziamo inoltre viaggi di conoscenza nei paesi in cui operiamo da anni”, conclude Bobba. “In questo modo diamo la possibilità a chi lo desidera di entrare in contatto con la popolazione e osservare la nostra attività, senza dover operare direttamente come volontari: attività che ormai richiede competenze tecniche e organizzative specifiche. I vecchi “campi di lavoro” infatti non hanno più ragione d’esistere: sarebbe insensato, oltre che irrispettoso, partire dall’Italia per compiere attività che possono essere svolte dalla popolazione locale”. Meglio fornire l’opportunità di incontrare culture e tradizioni diverse, piuttosto che passare per i soliti turisti occidentali un po’ sprovveduti.