Pietro Piffetti alla Fondazione Accorsi-Ometto
di Lucilla Cremoni
Definire strabiliante solo l’impatto visivo dell’opera finita è però limitativo, perché la definizione va moltiplicata almeno per tre: per la creatività e la progettualità, per quantità di lavoro e tempo che ciascun pezzo ha richiesto, per la maestria esecutiva di ogni minimo dettaglio. E tutto questo va moltiplicato per 220, cioè il numero di lavori eseguiti da Piffetti nel corso della sua quarantennale carriera secondo la stima fatta da Giancarlo Ferraris in un importante studio del 1992. Una settantina le opere arrivate fino a noi.
A differenza della maggior parte dei suoi colleghi, non era cresciuto in bottega: il nonno era mastro d’ascia ma il padre, nato ad Asti, dopo inizi da falegname si era trasferito a Torino dove aveva aperto un’osteria, e qui Pietro nacque nel 1701. Le condizioni economiche della famiglia erano più che modeste eppure Pietro, contrariamente ai suoi fratelli, tutti rimasti semianalfabeti e avviati a mestieri umili, ricevette un’ottima istruzione che includeva musica, calligrafia e letteratura. È dunque ipotizzabile che un religioso abbia deciso di prendersi cura della formazione di quel bambino.
Se la padronanza tecnica fu per lui il mezzo e non il fine, ciò non toglie che quella di Piffetti fu eccezionale e scrupolosamente coltivata per tutta la vita. Fu certamente acquisita nel modo consueto, cioè andando a bottega da un mastro artigiano e poi ottenendo il diploma di ebanista nel 1721 o 1722, ma poi fu perfezionata con un lungo soggiorno romano, reso possibile dall’interessamento di qualche personalità di corte (e forse addirittura di Juvarra, a Torino dal 1714 e col quale in seguito Piffetti lavorò) accortosi del talento del ragazzo. Per quanto plausibili, tutte queste restano ipotesi perché della formazione torinese e romana di Piffetti si sa pochissimo, se non che nel 1731 tornò a Torino per diventare ebanista di corte e restare tale fino alla morte nel maggio 1777.
I lavori di Pietro Piffetti, riscoperti alla fine dell’Ottocento e portati ad esempio di suprema valentìa tecnica, sono stati inclusi in diverse mostre storiche sul Barocco, come quella di Venezia del 1929 e quelle di Torino del 1937 e 1963, ma curiosamente nessuna mostra monografica è mai stata dedicata a quello che è indiscutibilmente uno dei maggiori ebanisti della storia.
Piffetti costruì tre cofani-forti per il re Carlo Emanuele III: uno nel 1732, uno nel 1745 e l’ultimo nel 1760. Uno di questi è quello acquistato dalla Fondazione Accorsi-Ometto ed è un oggetto rarissimo sia per la sua paternità sia, soprattutto, per la sua funzione – era praticamente una cassaforte portatile, originariamente dotata anche di una complicata serratura. Nel corso del tempo la serratura è stata rimossa e il mobile ha subito delle alterazioni che ne hanno reso necessario il restauro, eseguito dalla Fondazione Centro per la Conservazione ed il Restauro dei Beni Culturali “La Venaria Reale”, ormai riconosciuto punto di riferimento per il restauro dell’ebanisteria piemontese e in particolare delle opere di Piffetti; anche il percorso di restauro sarà documentato, vista la sua particolare complessità e l’uso di alta tecnologia (come la tomografia e la radiografia digitale).
Due le sezioni della mostra, l’una dedicata ai lavori di tema profano l’altra a quelli (decisamente meno numerosi) di carattere religioso.
Nella seconda sezione, quella dedicata alle opere sacre, accanto a un inginocchiatoio da parete del 1755-60 in legno e avorio sarà possibile ammirare uno dei due tabernacoli che da un secolo sono custoditi a Bene Vagienna. Realizzati molto probabilmente per il convento cappuccino di Carrù su possibile committenza dei Costa della Trinità, sono capolavori della produzione sacra barocca: strutturati come una piccola cappella, furono interamente impreziositi con intarsi in madreperla e avori policromi.
PIETRO PIFFETTI – Il re degli ebanisti, l’ebanista del re
13 settembre 2013 – 12 gennaio 2014 – Museo Accorsi-Ometto
13 settembre – 30 novembre 2013 – Palazzo Lascaris