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Rosata e senza semi – di Cristina Mazzariello

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Nella regione del vino si scommette sull’uva da tavola

di Cristina Mazzariello

Non è un bastian contrari, ma di certo neanche un bogianen. Franco Monge, 42 anni, è un produttore agricolo di Piasco, tecnico dell’Agri Valle Bronda. È suo il merito di aver portato nel saluzzese un pezzo di Puglia. È lui che ha scommesso sull’uva da tavola senza semi in Piemonte, la regione dell’uva da vino.
A ottobre 2013 la prima raccolta: due giornate di terra all’ombra del Monviso che hanno fruttato 1.500 chilogrammi di uva apirene, sia la varietà bianca sia quella rosata. Un prodotto nuovo per i piemontesi, tipico della Puglia, che per la prima volta arriva nel nord Italia. Bella da vedere e buona da mangiare: grappoli carichi e compatti, con acini allungati. Al palato è croccante, senza semi da sputacchiare, igusto dolce, con una punta di acidità.
Chi è del mestiere lo sa”, dice Franco Monge alzando gli occhi trasognati. “L’uva ha quel non so che di affascinante, è un prodotto della terra che ammalia. Quando sono stato in Puglia ho capito che dovevo portare l’uva da tavola sotto il Monviso. E così è stato”.
In questa storia però è bene fare un passo indietro. Tutto comincia nel 2010 con le prime segnalazioni in Piemonte della batteriosi dell’actinidia, la malattia mortale che ha distrutto le piantagioni di kiwi nel Lazio. Inutile ogni sforzo: a quel cancro non c’è soluzione, solo l’estirpo. In due anni la batteriosi si è diffusa rapidamente e con particolare virulenza nel Saluzzese dove è concentrata oltre l’80% della produzione regionale di actinidia (sono 4.500 gli ettari di terreno coltivati a kiwi su un totale di 5.600 ettari in Piemonte). In molti l’hanno pensato, ma in pochi hanno avuto il coraggio di ammettere che era necessario trovare un’alternativa al kiwi: la batteriosi stava infatti decimando le piantagioni nel Saluzzese.
Qui entra in gioco  Claudio Capitini, titolare dell’Agri Valle Bronda, un’azienda commerciale all’avanguardia nel settore dei mezzi tecnici per il vivaismo e per l’agricoltura tradizionale. È stato Capitini a fiutare l’idea dell’uva da tavola e Franco Monge a metterla in atto.
La ragione di questa scelta? È semplice”, spiega Monge. “L’uva apirene (uva da tavola senza semi), ha un mercato grandissimo e un alto consumo, soprattutto nel Nord Europa. È un prodotto molto ricercato in Inghilterra, Scandinavia, Germania e Danimarca. E poi permette di riadattare gli impianti di sostegno del kiwi mantenendone  intatta la struttura: i pali di cemento, i braccetti e i fili vengono recuperati al 100%. Senza contare che a inizio ‘900 ai piedi del Monviso si arrampicavano i cosiddetti autin, che però erano vigneti da vino”.
Spirito d’iniziativa, tenacia e un pizzico di follia hanno fatto il resto. Insieme a Monge ha collaborato un tecnico pugliese, Giuseppe Tagliente, che ha accettato la sfida nonostante i suoi colleghi lo prendessero in giro. “Tutti vanno in Africa a proporre l’uva da tavola e tu sali al Nord?”, lo schernivano. 
Il dottor Tagliente è venuto a Cuneo due anni e mezzo fa, ha analizzato i dati del clima, le temperature, i millimetri di pioggia e la composizione del terreno. E la sua conclusione è stata “Si può fare, proviamoci”.
Nel giugno del 2012 comincia l’avventura vera e propria con l’impianto dell’uva da tavola in sei aziende del territorio. A fare da capofila la “Monge Claudio e Vittorio” di Piasco, gestita rispettivamente dal fratello e dallo zio di Franco. Poi altre cinque a Costigliole, Verzuolo, Saluzzo, Revello, e ancora a Piasco. “Certo non è un vigneto che può essere coltivato ovunque”, chiarisce il tecnico Franco Monge.  “Sono da escludere i territori con nebbia e tempo umido, ma la fascia ai piedi del Monviso pareva avere condizioni ottimali”.
A preparare le piante è un vivaio di Pordenone. La base di partenza era la vite pugliese con una piccola modifica al portainnesto per adattarla alle condizioni del saluzzese. Di più non scuciamo a Monge: “È un segreto, non vogliamo che altri ci copino visti gli ottimi risultati della prima raccolta”.
Risultati che hanno stupito anche il tecnico pugliese: a sedici mesi dall’impianto, gli ottomila metri quadri di vigneti a Piasco hanno dato i loro frutti con 1.500 chilogrammi di uva perfetta. “Io stesso all’inizio ero scettico, ammette Monge, ma quando ho iniziato a veder maturare i grappoli mi sono ricreduto. A darci grande soddisfazione la varietà rosata su cui abbiamo deciso di puntare rispetto a quella bianca, decisamente più delicata”. In effetti l’uva apirene rosata ha assunto una tonalità più intensa e brillante rispetto ai grappoli pugliesi, probabilmente grazie agli sbalzi termici tipici dell’area del Monviso. E il colore, si sa, dal punto di vista del marketing rappresenta un valore aggiunto perché attira il cliente e piace al mercato.
Un altro punto a favore per questa nuova produzione saluzzese è la maturazione medio-tardiva. L’epoca di raccolta scatta infatti nel mese di ottobre, 20-30 giorni dopo rispetto alle piantagioni del sud, consentendo una collocazione sul mercato favorevole e senza eccessiva concorrenza.
 Le tempistiche di raccolta pugliesi in effetti hanno confuso il team dell’Agri Valle Bronda che ha tentato una prima raccolta a fine settembre. “È stato uno sbaglio”,confessa Monge. Non sapevamo e abbiamo provato, ma l’uva non era ancora perfettamente matura, dunque un po’ acida. Dal 10 ottobre in poi invece era perfetta. Importanti indicazioni per la prossima annata”.
La prova del nove è stata l’invio di alcuni campioni nel nord Europa, l’area di punta per la vendita dell’uva apirene. Il prodotto è piaciuto molto, e anche gli assaggiatori professionisti hanno dato il loro benestare.
E i potenziali clienti italiani? Una parte di questi grappoli è stata distribuita in piccoli negozi della zona, esercizi di frutta e verdura specializzati. Due le reazioni, assolutamente contrapposte: gli entusiasti e gli scettici. Come accade del resto per ogni novità.
Il nostro è un prodotto diverso”, spiega il tecnico piaschese. “Per venderlo devi spingerlo e spendere qualche parola per convincere il cliente. I negozianti che l’hanno fatto hanno venduto tutto il prodotto e ne volevano ancora. C’è chi invece a priori l’ha rifiutato per stare in linea con le scelte standard dei clienti”.
Sono semplici regole di mercato: il consumatore è abitudinario e spesso i suoi gusti sono condizionati dall’offerta stessa.
Il prezzo? È ancora troppo presto per stabilirlo: ovviamente sarà più alto rispetto all’uva da tavola con i semi, ma in linea con i prezzi della qualità apirene prodotta al sud. “Noi puntiamo a un prodotto di qualità e quindi a mercati che paghino la qualità “, dichiara Monge. “Sono anche più elevati i costi di gestione, ma tecnicamente è un lavoro che ti qualifica. Rispetto al kiwi, l’uva senza semi va seguita maggiormente, ci sono prassi cruciali che richiedono anche più manodopera”.
All’Agri Valle Bronda stanno anche lavorando a un marchio che identifichi il prodotto e il territorio di provenienza: “Uva da tavola del Monviso”. A questo progetto nel 2014 si uniranno altre aziende agricole che testeranno l’uva senza semi al posto delle piantagioni di actinidia.
Noi ci crediamo, conclude Monge, e crediamo anche di poter cambiare i gusti dei consumatori italiani. In ogni caso ci vorranno tre anni per arrivare alla piena produzione dei vigneti e già nell’ottobre 2015 l’effetto visivo sarà incredibile. È una bella scommessa tutta piemontese”.

Questo articolo ha ricevuto il secondo premio alla settima edizione del Premio Piemonte, Sezione Enogastronomia

 

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