Studio65, i Peter Pan dell’architettura
di Federico Carle
Fare architettura vuol dire costruire, ma non per lo Studio65 che ha fatto dell’”arte demolitoria” il suo cavallo di
Cinquant’anni di Studio65 e altrettanti di Gufram. Nozze d’oro per un matrimonio che continua?
Già! La Gufram è un’azienda piemontese nata nel 1966, produttrice di sedute e complementi d’arredo che ha saputo innovarsi usando il poliuretano come materiale di stampaggio per i suoi prodotti. Per questo Franco Audrito nel 1970 la scelse per realizzare il progetto del divano Bocca diventato un po’ il nostro simbolo (in copertina del catalogo generale della mostra, ndr), oggetto pop per eccellenza. Da allora la collaborazione fra Studio65 e Gufram continua senza sosta. E per festeggiare il sodalizio è stato realizzato il divano Boccadoro: una riproposizione del Bocca in tessuto lamé, per celebrare le nozze d’oro e rendere omaggio a Hermann Hesse autore di Narciso e Boccadoro in cui si afferma che la “conoscenza del mondo avviene anche attraverso il cuore, e non soltanto attraverso la ragione”.
Sì e no. Franco Audrito aveva ricevuto un’importante commessa per un centro benessere a Milano, il Contourella. Era appena diventato architetto e con la moglie Nanà e alcuni amici nel suo studio in corso Moncalieri a Torino cercava idee per non sfigurare di fronte alla prima importante occasione della sua carriera. Aveva disegnato tutto, dalle pareti ai pavimenti. Mancava però, nella hall d’ingresso del centro che era stato chiamato “Tempio della bellezza”, un simbolo che fosse sintesi e metafora di tutto il gioco. L’idea allora fu di Nanà che si ricordò di un quadro surrealista visto in Grecia (sua terra natia, ndr): era il ritratto di Mae West di Salvator Dalì in cui il volto della diva era rappresentato dagli oggetti di un’ipotetica stanza: gli occhi come quadri appesi, il naso come una credenza e la bocca come un divano a forma di labbra. Quella fu l’intuizione: non una copia, piuttosto un’ispirazione. Successe poi che l’oggetto venne fotografato e diffuso su qualche rivista, ma per errore il giornalista attribuii l’opera a Salvator Dalì. La notizia arrivo alle sue orecchie e ci scrisse una lettera in cui chiedeva spiegazioni. Prontamente gli rispondemmo chiedendogli scusa per il disguido, impegnandoci a porre rimedio con la notizia corretta. La cosa termino lì, Dalì fu un vero signore. Quel divano lo chiamammo Marilyn in onore alle labbra carnose della diva pop di Hollywood per eccellenza; quindi non un oggetto surrealista, ma di consumo. Qui sta tutta la nostra poetica: progettiamo oggetti che “parlano” e non solo che servono, in cui il significante è più importante del significato stesso.
E la lettera di Dalì? L’avete conservata?
Il nostro avvocato la volle a tutti i costi per sé, al posto del pagamento della parcella. Tuttavia pare che oggi sia andata dispersa, ahimé.
Architetto Vanara, qual è invece il progetto dello Studio65 al quale si sente maggiormente legato?
E quello era proprio il periodo della semplicità, ma anche della complicazione; dell’ordine e della contestazione, giusto?
Sì, eccome. Erano anni movimentati. Da un lato l’Arte povera di Piero Gilardi, o l’architettura radicale del gruppo Strum – molti come noi sotto l’ala della Gufram – semplice, pulita, ma forte e provocatoria. Dall’altro la Transavanguardia, ricca e esagerata quasi. Da un lato, ancora, John Cage e il suo 4’33’’ di silenzio assoluto, suonato per non essere suonato. Dall’altro il rock e il jazz; i Beatles e i Rolling Stones. La scanzonata generazione letteraria del Gruppo ’63 con Nanni Balestrini ed Edoardo Sanguineti in Italia, e l’irriverenza del Living Theatre newyorkese che prendeva le mosse dal Dadaismo di Marcel Duchamp. C’era la Pop art di Andy Warhol, il cattolicesimo kennediano rassicurante che nascondeva dietro di sé la guerra, la contestazione e le lotte operaie. Anni di protesta universitaria ma anche anni in cui all’università potevano insegnare dei geni assoluti fuori dal coro come Carlo Mollino (autore, fra i tanti, dei progetti per il Teatro Regio e l’Auditorium Rai di Torino, ndr). Era lui che ci diceva sempre che per fare gli architetti bisognava essere ricchi e con molto tempo da perdere. Ci definiva i primi “architetti plebei” della storia, perché non volevamo arricchirci col denaro, ma con le emozioni. E lo dico con orgoglio: lo Studio65 non ha mai progettato un condominio, vera tomba delle emozioni perché fonte di litigi futili, di frustrazioni e sopraffazioni.
Infatti. Attraverso il paradosso si espongono storie vere, criticando la società, denunciandola. Così nella Stanza della guerra ci si può nuovamente indignare di fronte agli orrori del conflitto in Vietnam, per esempio, sentendo i pianti dei bambini e dei civili ma anche l’inutilità di tutti i conflitti, con quel valzer del Gattopardo suonato in coda ai filmati per dire che “Tutto cambia, affinché nulla cambi”. Perché la Storia a volte non è maestra di niente. Oppure nella Stanza del mercante di nuvole ci si può sdraiare su dei cuscini-nuvola poggiati su un tappeto di cielo e tornare a far volare i propri sogni. Lo scopo è di ritrovare il bambino che c’è in noi: la nuvola è un paradosso, nessuno ha mai pensato di commercializzarla, dato che non porta profitto. Ma noi sì, perché rappresenta tutte le cose della vita che non sono quantificabili in denaro ma contano: i desideri, le emozioni, i sentimenti… La realtà vera è nei sogni, per quella vale la pena lottare e non per la finzione che c’è fuori dalla porta fatta di tranelli e sciocchezze. “Abbiate il coraggio di sognare, come dei bambini che non scendono a compromessi, sempre coerenti ai loro ideali”, ripete spesso Franco Audrito.
E la coerenza alla fine paga, giusto?
Certo (ride, ndr), dopo cinquant’anni… ma paga! C’è voluto tanto per farci riconoscere nella nostra terra, questa è stata la prima mostra importante a Torino, mentre da anni abbiamo opere stabilmente al MoMa, al Vitra Design Museum in Germania al Pompidou di Parigi, alla Triennale di Milano, in Asia…
Ma qual è l’eredità dello Studio65?
Un modus operandi. Abbiamo attinto a tutte le avanguardie storiche (Dadaismo, Surrealismo, Futurismo…) e siamo stati noi stessi un’avanguardia. Volevamo cambiare il mondo, e in parte il mondo ha cambiato noi, certamente, come tutti i movimenti rivoluzionari. Ma non abbiamo fallito, perché il seme del futuro è stato piantato. Un segno? Avete visto come giocano felici i bambini con gli adulti sui nostri multipli d’arte (coi pezzi del Baby-lonia, sulla poltrona gigante Mickey dei sogni, con la Colonna sonora…), chi è il “grande” e chi il “piccolo” lì? Beh, tutti siamo tutto. L’arte è vita; è un gioco – serissimo – che va toccato con mano. Per progettare il futuro bisogna ricordarsi del passato, di quel passato in cui eravamo giovani spensierati e pieni di sogni… proprio come oggi, o no?