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Quel piemontese di Don Rodrigo – di Piervittorio Formichetti

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Manzoni forse si ispirò a Giovanni Battista Caccia per dar vita al suo ignobile signorotto

di Piervittorio Formichetti

“Illustrissimo”, “rispettabile cavaliere”, “signor castellano”, ma anche “soverchiatore”, “uomo senza timor di Dio”, “cane”, “dannato”, “assassino”, “prepotente”, “anima nera”, “tizzone d’inferno”. Così viene chiamato nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni il celebre personaggio di don Rodrigo, signorotto di origine spagnola, potente e meschino, mosso dal proprio capriccio e dall’orgoglio di casta. Sembra che per la scelta del nome Manzoni si sia ispirato a Roderigo, personaggio dell’Otello di William Shakespeare, che tenta di assassinare Otello per sottrargli sua moglie; mentre la tradizione orale della provincia di Lecco identifica il palazzotto di don Rodrigo con la Villa dello Zucco, che nel ’600 apparteneva alla casata Arrigoni, nobili potenti e prepotenti, protagonisti di una lunga faida proprio contro i nobili Manzoni, antenati dello scrittore. Don Rodrigo rappresenterebbe perciò una famiglia storicamente esistita tra la piccola nobiltà lombarda.
Ma c’è anche chi pensa che il “cattivo” manzoniano rispecchi un individuo preciso, il piemontese Giovanni Battista Caccia detto “il Caccetta”. Come Manzoni fa dire a don Abbondio, chi era costui?
Giovanni Battista Caccia, nato il 22 luglio 1571 nel castello di Briona, nell’attuale provincia di Novara – all’epoca appartenente al “Milanesado” spagnolo – discendeva da una famiglia che nei secoli precedenti aveva annoverato tra i suoi membri vescovi, uomini d’arme e giuristi (nei Promessi sposi, Manzoni descrive don Rodrigo che si ostina nel suo puntiglio osservando i ritratti dei suoi illustri antenati, che lo circondano sulle pareti del suo salone, e sente il dovere di non perdere l’onore).

Il ramo dei castellani di Briona però, a fine Cinquecento, non era dei più floridi, e Giovanni Battista, “homo vivace, risentito, altiero et de grandi pensieri”, ma dall’aspetto fisico poco prestante – da ciò il nomignolo di “Caccetta” datogli dai contemporanei, che veniva anche spagnolizzato in Cachita – cercò di ripristinare i suoi privilegi feudali, nei confronti dei singoli e della comunità locale, con le maniere cattive.
La sua prepotenza “mafiosa” era nota anche fuori dal Novarese, tanto da indurre alcuni studiosi a ipotizzare che Manzoni, nei panni di don Rodrigo, abbia messo proprio il Caccetta.
Monsignor Luigi Maggiotti, nella sua opera Notizie di Cavaglietto e de’ paesi circonvicini, pubblicata a Novara nel 1886, scrisse che Caccia, divenuto adulto e stabilitosi nel castello di Vaprio d’Agogna (acquisito dalla sua famiglia già nella seconda metà del ’400), iniziò a essere famigerato: “I misfatti che stiamo per narrare dimostrano quanto sia vera la dipintura che il Manzoni fa di quei signorotti di Lombardia ribaldi, facinorosi, i quali sotto la trista dominazione spagnuola specialmente, circondandosi di bravi, ossia di scherani e banditi, ogni cosa si facevano lecito, sfidando la giustizia e la forza di quel governo fiacco e corrotto. Il Caccetta era infatti un ribaldo coi fiocchi […], sperperava il suo e con violenza s’appropriava dell’altrui. Di giorno e di notte egli e i suoi bravi, sempre armati di pugnali e di archibugi, incutevano dovunque terrore. […] Soleva il Caccetta far la corte alle giovani e alle maritate, e nelle case loro e nelle campagne attentare al loro pudore e anche violentarle. […] Al principio di giugno 1595 stuprò in campagna certa Angela da Briona, di soli 12 anni, la quale perciò dopo lunga malattia ne morì. Costrinse con minacce di morte Alessandro Buella e Ludovico il Musicante a prostituirgli le loro figlie. […] Nel 1598 ferì gravemente nella faccia, deformandola, certa Maddalena Sabbioni, serva di Ascanio Gattico pure da Briona, perché non volle fargli da ruffiana. Era fiero nemico dei preti e dei frati, e quanto più poteva li perseguitava e maltrattava”, tanto che ne fece seppellire uno vivo sotto una vigna tra Briona e Fara Novarese. Tra gli altri crimini, minacciò un oste perché lasciasse il suo posto a uno dei suoi bravi. Nel 1600 fece picchiare un ciabattino che aveva comprato una casa a lui confiscata, e lo minacciò di fargli tagliare le mani se vi fosse entrato; il ciabattino la affittò a un barbiere e il Caccetta ordinò al barbiere di portare fuori tutta la mobilia, poi gliela fece riportare dentro e infine gli disse: “Adesso puoi godertela per mio conto!”
La ricerca di don Luigi Maggiotti venne poi approfondita da Alessandro Viglio, dal 1917 direttore dei  Musei civici di Novara, dal 1937 provveditore agli Studi della provincia, e co-fondatore della Società Storica Novarese e del “Bollettino storico per la provincia di Novara”; diresse anche l’Archivio Storico e la biblioteca civica di Novara dal 1931 alla morte (1943). Nella sua opera intitolata proprio Un don Rodrigo della bassa Valsesia: Il Caccetta, pubblicata a Torino nel 1931, scrisse: “Quante volte, leggendo queste deposizioni, mi balenò alla mente il sospetto che Alessandro Manzoni abbia avuto conoscenza di questo grande delinquente nel delineare la figura di don Rodrigo!”
Lo studio del Viglio si basava infatti su alcuni fascicoli, conservati a Novara, di interrogatorii e di testimonianze che costituiscono una parte dell’istruttoria del processo contro Caccia dopo che fu arrestato nell’ottobre del 1602; il processo era stato uno dei più clamorosi dell’epoca e non è impossibile che Manzoni, due secoli dopo, ne abbia avuto tra le mani gli atti originali, che poi andarono perduti.

Negli ultimi anni del secolo XVI, Caccia restò folgorato dalla bellezza di una donna, Margherita Casata (o Casati) Vidua (ma vidua può voler dire anche semplicemente “vedova”), di cui non sappiamo nulla di certo. Era fidanzata col giovane più ricco di Novara in quel periodo, Agostino Canobio. Il primo pensiero del Caccetta, vedendola in sua compagnia, dev’essere stato: questa donna dev’essere non di Canobio, ma mia! 
La prima vittima della passione del Caccia per Margherita fu sua moglie, Antonia Tornielli, nobile novarese sposata a vent’anni nel 1591: secondo monsignor Maggiotti, nel 1597 “con una torta avvelenata la spedisce all’altro mondo”, ma nessuno denunciò il fatto. Poco dopo, il canonico Serafino de’ Conti, che doveva celebrare il matrimonio tra Agostino Canobio e Margherita Casati, fu minacciato di morte da Tomaso Crabbia, uno dei bravi del Caccetta (proprio come don Abbondio, nel romanzo, è minacciato dai bravi di don Rodrigo affinché non sposi Renzo e Lucia); poi il Caccetta fece uccidere un amico di Agostino, Sebastiano Cattaneo; infine fece assassinare a Milano Ottavio Canobio, zio del promesso sposo.
Nel 1600 Caccia fu condannato a morte per quest’ultimo omicidio, ma si liberò della condanna consegnando alla giustizia due teste di banditi – come permesso dalle leggi dell’epoca – e, per essere più sicuro, si trasferì con i suoi bravi a Gattinara, nel Ducato di Savoia. Qui si procurò denaro in parte rubando cavalli e altro bestiame, in parte facendoli fabbricare nella sua rocca di Briona da Ercole Picurro, monetiere di Intra; ma il falsario fu scoperto e arrestato dopo aver coniato poche “parpagliole”.Nell’aprile del 1602 morì Agostino Canobio, senza essere riuscito a sposarsi, e il Caccetta fu consegnato agli Spagnoli dal conte di Gattinara, d’accordo col duca Carlo Emanuele I, che così se ne liberarono. Dopo un processo durato sette anni, passati in carcere a Milano e a Pavia – nel 1604 gli inquirenti novaresi mandarono gli atti al Senato di Milano, perché a quel punto le accuse esulavano dalle loro competenze – Giovanni Battista Caccia venne decapitato a Milano, in corso di Porta Tosa, il 19 settembre del 1609.

Questo articolo ha ricevuto il terzo premio alla IX edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura

Pubblicato su Piemonte Mese anno XII n. 2, marzo 2016

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