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Da Strevi alla tavola dell’Onu – di Anna Serafini

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La Cantina Marenco e il suo Moscato
di Anna Serafini

NEW YORK – “È grazie a mio nonno che io sono qui adesso a New York a parlare con te”. A 37 anni, una laurea in ingegneria gestionale che lo ha portato prima alla Ferrari poi alla canadese Bombardier, oggi di nuovo studente universitario, ma di enologia, Andrea Costa è il responsabile dell’export nell’azienda fondata dal bisnonno Michele: la cantina Marenco.
La loro storia è legata a Strevi, un piccolo comune in provincia di Alessandria sulle cui colline si coltiva il frutto da cui nasce l’omonimo Moscato d’Asti. Un terreno fertile, non solo per “l’uva buona”, ma anche per quel trapasso di conoscenze su terra e vino che si trasmette di generazione in generazione e che è identità del distretto. Una delle famiglie produttrici di Moscato d’Asti Strevi, i Marenco cercano di imbottigliare “tradizione e innovazione, pensando alla sostenibilità e al clima”.
Ironia della sorte, o forse no, il fatto che proprio il cambiamento climatico fosse uno dei temi centrali nell’agenda delle Nazioni Unite lo scorso settembre, quando le bollicine Marenco sono arrivate sulla tavola di Ban Ki-moon, tra leader mondiali, in occasione del pranzo di apertura della 71sima Assemblea Generale. Forte di questo successo,

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due mesi dopo, Andrea è a New York insieme al Consorzio ed altri produttori per promuovere il Moscato d’Asti in una terra a cui strizza l’occhio.
Da Strevi al Palazzo di Vetro: il Moscato D’Asti “Scrapona” della cantina Marenco nei bicchieri dei grandi della terra. Che effetto fa?
La Scrapona è il nome della vigna che il mio bisnonno chiamava casa. Ancora oggi è la nostra vigna più importante di Moscato; ma è anche il vigneto con il quale la Marenco è nata e sui cui stiamo lavorando a un progetto di ricerca, “Scrapona 100 punti”, che esplora soluzioni innovative al cambiamento climatico, rispettando l’ambiente e puntando sulla sostenibilità. Durerà tre anni, con un grande investimento da parte nostra. Aver ricevuto la notizia che proprio all’Onu avessero scelto la “Scrapona”, è stata una soddisfazione ancora più grande, perché coerente con ciò in cui crediamo e che vogliamo fare”.
La notizia della selezione ve l’ho data io…
(Ride) Sì, il 20 settembre, il giorno stesso dell’Assemblea Generale. Non sapevamo assolutamente che il nostro Moscato sarebbe stato servito al pranzo dei leader. Quando mi ha telefonato per saperne di più, ho preso tempo, ho chiamato mio padre, mia madre, mia zia, ma nessuno era al corrente di questa cosa. Per ragioni di sicurezza, la scelta non viene comunicata ai produttori”.
Sveli il segreto. Come avete raggiunto questo traguardo?
Tramite l’enoteca Rosetta, una delle più belle di New York, vicino Wall Street. Il giorno dopo ho chiamato Shermon Peters per ringraziarlo: era molto felice, mi ha ribadito che doveva mantenere il riserbo. Poi abbiamo ricevuto un secondo ordine dall’Onu, significa che il vino è piaciuto, no?”
Due mesi dopo, lei segue le orme del suo Moscato e viene a New York. Perché?
Per un evento importante, promosso dal Consorzio per la Tutela dell’Asti Docg, che già a settembre aveva organizzato seminari a Miami, San Francisco, New York e Chicago per avvicinare il prodotto a ristoratori, enoteche, importatori e distributori. In occasione di “A night with Moscato d’Asti”, noi e altre cinque aziende (Caudrina, Coppo, Michele Chiarlo, Ceretto e Saracco, ndr) abbiamo presentato a Manhattan i nostri moscati ad addetti ai lavori e appassionati: vogliamo raccontare la tradizione del nostro territorio, del Moscato come vino d’eccellenza”.
E in America il Moscato d’Asti piace e vende. Secondo i dati del Consorzio, gli USA rappresentano l’80% delle vostre esportazioni. Dal 2005 il Moscato è stato decantato in almeno cinque pezzi di rapper/celebrities tra i quali Drake, Teairra Mari con Jay-Z e Kayne West, marito di Kim Kardashian. Cosa significa questa pubblicità per il vino e le cantine piemontesi?
Innanzitutto, in America ha prodotto un’impennata di consumo: nell’ultimo decennio si è registrata una crescita annua sul 20%. Ma c’è ancora spazio: qui ci sono Moscati da tutto il mondo, compresa la California e il Brasile, per questo è importante raccontarci. Noi negli USA ci siamo e ci vogliamo essere: gli americani hanno un amore viscerale per tutto ciò che è buono, se è italiano è anche meglio”.
Tra chi si registra questa crescita?
Soprattutto tra i millennial. Ma non si fidano della stampa di settore o dei supergiornalisti, ma degli amici e conoscere quello che consumano. Per noi è anche un bene: siamo una cantina con una grande storia da raccontare, che fa il vino ancor oggi in maniera artigianale”.
Proviamo a sintetizzare la storia della Marenco.
A noi piace dire che la Marenco è nata nel 1925, anno in cui il mio bisnonno e la mia bisnonna si sono sposati: avevano vigne confinanti, e così hanno unito i due vigneti, la Scrapona da un lato, la Marchesa dall’altro. All’epoca erano tutti contadini, con un campo in cui coltivare frutta, verdura, uva per farsi il vino per avere energia d’inverno, qualche gallina, i conigli: se ne mangiava la carne, e infatti tante ricette tradizionali della nostra zona sono a base di coniglio, e si vendeva la pelle alla vicina Borsalino che ne faceva cappelli. Dopo la guerra, l’Italia risorgeva e i contadini lasciavano le campagne per andare in città. Mio nonno Pino ha capito la bellezza e la potenzialità del nostro territorio: ha cominciato a imbottigliare vino e venderlo fino ai grandi centri. Ha visto il passaggio dalla damigiana da 54 litri alle mezze bottiglie da 0,375. “Così diventiamo dei farmacisti”, scherzava. Oggi abbiamo 100 ettari di terreno, di cui 80 adibiti a vigneto: lui comprava quando meritava comprare, dove la neve si scioglie prima e l’uva viene più bella”.
Quindi un forte legame con il territorio.
Assolutamente sì, lo stemma del paese è sette coppe di vino. La leggenda parla di dieci fratelli: sette ubriachi che hanno fondato Strevi e tre sobri hanno fondato il paese Trisobbio, a 5 chilometri da noi, ma non so se lì la raccontano uguale. Strevi è paese del vino, infatti, nel disciplinare del Moscato, si menziona la sottozona Strevi, che produce particolari pregi, e infatti si può citare in etichetta. Non solo: nella nostra zona ci sono tracce di viticultura da mille anni. C’è chi vi rintraccia addirittura le coltivazioni di etruschi e romani. Di fatto, abbiamo un tessuto di persone che sanno quello che fanno con l’uva e col vino, una conoscenza che si tramanda di generazione in generazione”.
Tradizione, quindi. Ma tornando a Ban e alla Scrapona, faceva riferimento a un progetto “innovativo”.
Sì, abbiamo diviso la Scrapona in sette appezzamenti nei quali sperimentiamo tecniche diverse. Queste includono una sfogliatura più incisiva, un maggiore e un minore utilizzo di concime naturale, la creazione di zone d’ombra, irrigazione con il permesso delle autorità a scopo di ricerca. Poi, in collaborazione con gli agronomi, l’università di Torino e il Consorzio del Moscato, andiamo a misurare come hanno reagito l’uva e il terreno. Vogliamo fare un vino sempre più buono, aromatico e naturale, azzerando i residui di fitofarmaci sia nell’uva sia nel terreno. Per noi questo significa innovazione nella tradizione; essere biologici, naturali; fronteggiare il cambiamento climatico – meno piovosità vuol dire più stress idrico per la pianta, che cerchiamo di contrastare con queste tecniche – ma anche sostenibilità. Suona smielato, ma a marzo io e mia moglie avremo una bambina. Mi dà una carica incredibile pensare di poter contribuire a lasciarle un mondo più sano”.

Questo articolo ha ricevuto una menzione d’onore alla X edizione del Premio Piemonte Mese. Sezione Economia, Turismo, Ambiente

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