la storia millenaria di Palazzo Siccardi
di Andrea Di Salvo
Da Piazza Arbarello scendo per l’acciottolata Via Barbaroux. Dopo due isolati, sulla destra, si apre la modesta
Radunati così al piano terra, veniamo divisi in due gruppi e io capito con Alessia Massolo.
“Alessia – a presentarcela è la stessa responsabile – è una ragazza che ha svolto qui il suo servizio civile. Ha una laurea specialistica in Storia del Patrimonio Archeologico e collabora con lo staff della biblioteca in queste visite guidate al palazzo”.
Non ci sembra di essere in mani migliori. Iniziamo la visita.
Saliamo lo scalone di gusto juvarriano, opera dell’architetto Plantéry, e la nostra giovane guida ci fa subito notare l’irregolarità della planimetria indicandoci la finestra del pianerottolo che non segue la superficie interna del muro, curvilinea, ma la taglia di sbieco. “È già un indizio, spiega, delle varie epoche vissute dal palazzo e del tentativo di congiungere due corpi di fabbrica distinti”.
Arriviamo al primo piano ed entriamo tutti in una piccola sala. Alessia, chiudendosi la porta alle spalle, inizia a raccontare: “Si hanno tracce di quello che oggi è Palazzo Siccardi sin dall’epoca romana. Esso si situa lungo l’impianto fognario che correva per il decumano, che prenderà prima il nome di via della Madonnetta o Madonnina-Contrada della Misericordia e poi, dal 1860, di via Barbaroux. Al periodo imperiale è ascrivibile una domus di cui, nel corso dei restauri, sono state messe in evidenza le tracce di un muro visibile in parte nel vano ascensore (e con la mano indica il cortile oltre una finestra, dove è presente l’ascensore esterno), della pavimentazione in coccio pesto, un particolare tipo di rivestimento drenante, e di alcuni fori per le colonnine dell’ipocausto. Quest’ultimo dettaglio fa supporre che la famiglia proprietaria dello stabile fosse piuttosto abbiente e pone l’edificio in rilievo, poiché, al momento, risulta essere il secondo esempio torinese di domus con tale tipo di riscaldamento oltre a quello del Museo Diocesano”.
Alzando un dito verso il soffitto Alessia ci fa notare l’affresco di Domenico Guidobono che ha rappresentato la scena mitologica del Trionfo di Giunone. Il pittore savonese, racconta, sembra che abbia utilizzato per il volto della dea lo stesso cartone impiegato per ritrarre la Seconda Madama Reale a Palazzo Madama in un’altra sua più prestigiosa committenza.
Entriamo nella stanza accanto, adibita a laboratorio informatico, e il contrasto tra un’altra rappresentazione del medesimo artista su un finto fregio architettonico e i computer sottostanti che macinano bit non si avverte nemmeno, sembra una coesistenza naturale.
Ritornando sui nostri passi, Alessia prosegue la narrazione: “Nel 1737, alla morte di Siccardi, il palazzo viene ereditato dalla figlia maggiore e ben presto, come altri casi nel centro storico, diviene casa da reddito con la suddivisione in più vani. Si perdono le notizie circa la proprietà dell’edificio e, dai documenti dell’Archivio Storico, sappiamo che passa per più mani. Agli inizi del Novecento la destinazione risulta di civile abitazione e il fabbricato viene ulteriormente parcellizzato. Nell’agosto del 1942, nel corso dei bombardamenti che colpiscono la zona
Mentre lo dice, si avvicina a uno dei pannelli descrittivi e indica un altro scatto fotografico: “Questo è il portone che vi ha accolti prima: sono presenti motivi geometrici e rosette del Seicento, pregevolmente conservati, ai cui lati si trovano i telamoni, quelle tipiche figure che sembrano sorreggere degli elementi architettonici. E lo vedete quel ragazzino lì, vicino al portone nella foto? Qualche tempo fa un signore, venendo in visita come voi, vi si è riconosciuto”.
Apprezziamo ancora, tra i volumi e i materiali della sezione Saggistica, la sala centrale con il soffitto a cassettoni e la camera da letto patronale il cui soffitto, pure a cassettoni, reca in questi i monogrammi dei Siccardi (M.A.S. e M.C.V.); osserviamo quindi i fregi con putti e vasi di peonie e le ricche decorazioni degli sguanci e dei sotto finestra con scene paesaggistiche, motivi floreali o geometrici nei colori ricorrenti dell’edificio che sono il rosso, l’azzurro e il giallo oro.
Prima di tornare al piano terra visitiamo anche l’ultimo, destinato alle stanze delle quattro figlie del Siccardi e in cui le scene di carattere paesaggistico quali le marine, i borghi in collina e le residenze in campagna si alternano alle scaffalature che ospitano i libri. Scendendo le scale fino all’accoglienza e agli ambienti del settore Narrativa, chiedo ad Alessia quali siano, secondo lei, gli elementi di maggior pregio della struttura.
Rientriamo per osservare ancora una chicca tutta piemontese nella sala dell’accoglienza: “Con gli interventi di restauro si è cercato di riportare all’antico splendore i vani di questo particolarissimo palazzo. Talvolta, soprattutto in queste sale del piano terra, ciò ha comportato un lavoro notevole, considerando l’evoluzione e i cambiamenti avvenuti nel corso del tempo. In questo ambiente potete notare un pregevole soffitto tardogotico a cassettoni del Cinquecento tipico dell’edilizia piemontese e valdostana del quindicesimo e sedicesimo secolo, il cui unico confronto a Torino sarebbe potuta essere l’ormai scomparsa Casa del Vescovo-Casa Provana”.