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Il cranio della discordia: il Museo Lombroso fra crociate “umanitarie” e rigore scientifico – di Chiara Pibiri

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Il cranio della discordia
Il Museo Lombroso fra crociate “umanitarie” e rigore scientifico
di Chiara Pibiri

Torino o Motta Santa Lucia? Questo è il dubbio – quasi amletico – che incombe sul cranio di Giuseppe Villella, un presunto brigante calabrese della seconda metà dell’Ottocento incarcerato e morto in Lombardia. Una storia come tante, a quel tempo, se non fosse che il cranio di Villella, conservato a Torino, ispirò la teoria oggi aberrante dell’Atavismo.
Ma facciamo un passo indietro fino al 1864, quando Cesare Lombroso assiste all’autopsia di Villella: in quel momento l’esperienza non desta particolare interesse nell’allora trentenne medico, antropologo e criminologo veronese che da qualche anno si dedica a studi di antropologia su pazzi e criminali.
Anni dopo, nel 1870, analizzando il cranio di Villella Lombroso nota una fossetta e altre anomalie che fanno scattare l’intuizione per la nascita dell’Atavismo, una teoria che rinveniva nelle caratteristiche anatomiche delle persone l’origine del loro comportamento criminale: alcuni tratti, definiti primitivi, avrebbero richiamato una somiglianza tra la forma del cranio dei criminali e quella dei primati e sarebbero, secondo la teoria, segnale di una tendenza al comportamento criminale.
L’Atavismo ben presto fu smentito dalla stessa scienza e oggi ha perso ogni credibilità, ma nel contesto del Positivismo ottocentesco godette di una certa fama e considerazione, come testimonia l’esposizione dei reperti studiati da Lombroso in occasione dell’Esposizione generale italiana nel 1884.
Dopo l’elaborazione della teoria, Lombroso procede con i suoi studi anche quando, nel 1876, si trasferisce a Torino come docente di medicina legale all’Università. Con sé porta la collezione, raccolta fin dalle sue esperienze nell’esercito di fine anni Cinquanta, di “reperti” collegati agli studi sul mondo criminale. Dapprima la ospita nella sua abitazione in via della Zecca 33, ma già nel 1877 la trasferisce nel palazzo di via Po, 18 – lo stesso che oggi ospita l’Accademia di Medicina di Torino.
Si tratta però ancora solo di una collezione, non di un museo. È necessario attendere il 1896, quando Mario Carrara, allievo di Lombroso, la riordina e la fa esporre in via Michelangelo 26. Carrara dirige il museo dal 1904 al 1931, quando rifiuta il giuramento di fedeltà al fascismo e segue la sorte dei pochi altri che fanno come lui: la morte professionale. Perde la cattedra e la direzione del museo, e muore qualche anno dopo.
Bisogna arrivare al 2001 per la riapertura del Lombroso, ospitato nel Palazzo degli Istituti Anatomici di via Giuria e parte di un polo museale dell’Università di Torino che, insieme ai musei di Anatomia umana e di Antropologia ed Etnografia (quest’ultimo in fase di trasferimento) raccolgono la testimonianza del Positivismo scientifico torinese a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento.
Oggi il museo Lombroso è il racconto sia di un grande errore scientifico sia del contesto storico che ha portato alla formulazione di quell’errore. Una lettura necessaria per comprendere che la scienza non può che procedere per tentativi.
Ci sono gli strumenti di cui lo scienziato, convinto che il vero progresso risiede nel “trionfo della cifra” capace di penetrare “il mistero dell’intelletto” (come scrive lui stesso nel 1878), si serve per misurare, annotare, comparare ed elaborare il comportamento criminale.
La sala principale è occupata dalla collezione di teschi (oltre seicento), e dalle maschere mortuarie di cera plasmate dal medico di Parma Lorenzo Tenchini. Una folla di resti spesso senza nome, identificati solo con le categoriche definizioni di brigante, ladro, falsario, omicida ecc.
Poi le raccolte di tatuaggi, fotografie di criminali, corpi di reato a volte sorprendenti per originalità (come i pugnali nascosti in crocifissi utilizzati da una banda di falsi monaci) e le opere dei carcerati e degli internati nei manicomi. Una rassegna di oggetti unica: tessuti, modellini, l’incredibile vestito di stracci pesante circa quaranta chili che Versino, un internato del manicomio di Collegno, indossava d’inverno e d’estate. E ancora carte da gioco, i sorprendenti mobili di Eugenio Lenzi, internato nel manicomio di Lucca, gli orci decorati che oggi rappresentano una testimonianza importante del passaggio dalle varianti dialettali all’italiano.
Il museo è un mondo, anzi una concezione di mondo, che lo scienziato continua ad abitare con il suo scheletro, esposto per sua precisa volontà testamentaria. L’effetto finale è curioso: con la sua presenza fisica all’interno del museo che ne racconta l’operato, Lombroso pare ancora più imprigionato nel suo errore di circoscrivere nei confini del misurabile la mente umana, e per un attimo sono i visitatori che si sentono a loro volta scienziati, intenti a esaminare una raccolta che testimonia un’ossessione.
In questo contesto di chiara smentita delle teorie lombrosiane è esposto l’oggetto del contendere, il cranio “inquieto” di Villella.
Inquieto perché il Comune natale del presunto bandito, Motta Santa Lucia a Catanzaro, lo vuole indietro insieme agli altri resti del corpo per procedere alla sepoltura e ha citato in causa l’Università di Torino. È l’inizio di una piccola guerra, che nel 2012 vede prevalere il Comune calabrese. Il tribunale di Lamezia Terme ordina infatti la restituzione delle spoglie, con spese di trasporto e tumulazione a carico dell’Università. Il ricorso arriva puntuale, ma la sentenza d’appello prevista per l’aprile del 2016 viene più volte posticipata dalla Corte di Catanzaro.
Non è un’attesa vuota, perché nel frattempo spuntano nuovi personaggi: nel settembre del 2016 una testimonianza ricalibra la causa su una dimensione più “personale”: alle pretese di Motta Santa Lucia l’Università risponde con un presunto discendente di Villella, che dichiara di accettare che il cranio sia conservato al Museo Lombroso. A questa testimonianza si accompagna la tesi difensiva dell’Università, che sostiene che il cranio di Villella è a tutti gli effetti un bene culturale e come tale regolato e tutelato dallo specifico codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, e inoltre che è conservato secondo tutti i criteri di pietas necessari in caso di esposizione di resti umani, come da parere espresso dall’Icom (International Council of Museums, l’organismo che ha come scopo la conservazione e la corretta comunicazione dei beni culturali materiali e immateriali). In sostanza, il cranio esposto serve alla funzione educativa propria di ogni museo.
Una parte della comunità si è intanto schierata: nel 2009 è nato infatti il comitato spontaneo “No Lombroso,” a cui ha aderito un centinaio di città italiane, che chiede addirittura la chiusura del museo per supposta apologia di razzismo.
Un Comune che chiede che un suo concittadino non sia più un reperto, un museo che difende il diritto di far conoscere una teoria ancorché sbagliata perché importante per documentare un’epoca e una tappa della ricerca scientifica, una parte della popolazione forse poco fiduciosa della capacità critica umana…
Una vicenda complessa, non solo giudiziaria, e tutt’altro che conclusa: è del 2016 la comparsa in scena di un’altra presunta erede di Villella, che reclama il diritto di proprietà e conservazione del cranio.
La storia del Museo Lombroso continua.

Questo articolo ha ricevuto il secondo premio alla X edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura

Le immagini pubblicate sono quelle fornite dal Museo alla stampa in occasione dell’inaugurazione del 2009

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